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Fraterne Dinastie

I fratelli Prati francesi, i fratelli Underwood inglesi di Hong Kong, i fratelli Barrett e Whitelock neozelandesi, i fratelli Burgess nella rugby league. In Italia è consentito estendere il flash back ancora più indietro, sino alle origini, per imbattersi nel poker dei Vinci, protagonisti, tutti assieme, nell’esordio della Nazionale, 95 anni or sono a Barcellona: Eugenio, Francesco, Paolo e Piero, nati tra il 1900 e il 1912 (Piero era un ragazzino quel 20 maggio in Catalogna…) erano, secondo lo stile dell’epoca, indicati come I, II, III e IV, proprio come avveniva, nel calcio, per la dinastia dei Sentimenti. Tutti e quattro, venuti alla luce tra Santo Domingo, New York e la Francia, giocatori di una delle squadra pioniere del movimento ancora in fasce, la Lazio. Il primo alberello piantato dai Vinci è cresciuto, è diventato un albero, ha sviluppato rami: molto robusto è quello della famiglia Francescato. In ordine di venuta al mondo, Nello, Bruno, Rino e Ivan, volato via prima di toccar la meta dei 32 anni per uno strazio senza fine legato a quell’indimenticablle scorridore. Trevigiani i Francescato, trevigiani della Marca (Montebelluna e Asolo) Manuel e Denis Dallan che lascarono il loro segno a Canberra, nel 2003, contro Tonga: una meta di Manuel e due di Denis che, è il caso di dirlo, lanciò nel finale un paio dei suoi acuti. Da Treviso a Padova, con Mauro e Mirco Bergamasco (195 caps in due, una lunga milizia parigina) continuatori di una saga di famiglia iniziata da Arturo, uno dei “banditi” che seguì Marco Bollesan nell’avventura sudafricana lontana mezzo secolo, e poi, spostandosi di pochi chilometri e scavalcare i confini veneziani, per trovare il luogo natale di Paolo e Alessandro Garbisi. A parte i Vinci, monopolio veneto? Da Latina, via Sudafrica, arrivarono i gemelli Cuttitta, Marcello - ancor oggi metaman azzurro - e Massimo, pilone e capitano azzurro, poi tecnico della mischia scozzese, stroncato dal Covid: a lui FIR e SRU hanno intitolato la Coppa che Italia e Scozia si contendono nel Sei Nazioni. La Toscana ha replicato negli anni Ottanta con i livornesi Fabrizio e Fabio Gaetaniello e oggi con i dioscuri fiorentini Niccolò e Lorenzo Cannone che con Leonardo Fabbri, al vertice mondiale del lancio del peso, sarebbero soggetti ideali per lo scalpello di un redivivo Michelangelo Buonarroti.

News | 31/05/2024

Gori detto Ugo

Lingua sciolta e passaggio veloce: poteva chiamarsi Edoardo uno così? E infatti Gori ha deciso di chiamarsi Ugo, di esser contenuto, tutto intero, in sette lettere. Comodo per la vita, perfetto per il ruolo. Un nome da titolo, dicevano i vecchi giornalisti dell’età del piombo. Ugo è fiorentino di Borgo San Lorenzo, luogo di scontri tra guelfi e ghibellini e di prime esperienze per un giovane Giotto. Anche Gori, cresciuto e legatissimo ai Cavalieri di Prato, era molto giovane, meno di 20 anni, quando è stato chiamato per la prima volta in Nazionale: a Firenze, contro l’Australia, era Nick Mallett che lo avrebbe portato ai Mondiali neozelandesi del 2011. Da quella volta – era il 2010 - le presenze sono diventate 69, passate a a picchiettare il pallone sulle schiene degli avanti, a pensare rapido. A provare a risolvere da solo: gli è riuscito in Coppa del Mondo, nel 2015, contro la Romania. Jacques Brunel aveva fiducia in lui. Brunel, appassionato enologo e produttore a Auch, serve a introdurre quel che può apparire come un particolare curioso: la carriera dimostra che Ugo deve aver predilezione per i luoghi dove nasce il vino: dal luogo natio (appena a sud c’è il Chianti), è finito, per nove anni, al Benetton: nella Marca trevigiana il bianco ha la meglio sul rosso. Poi, e sino a oggi, a Colomiers, Occitania o Alta Garonna, appena a nord di Tolosa la rossa. Intorno, molta vigna bassa e vini non troppo impegnativi, perfetti per chiacchierare di rugby in un luogo dove il gioco permea le coscienze e occupa le passioni. Per il brindisi finale a una vita da mediano lo lasciamo libero di scegliere tipo, etichetta e gradazione. Di sicuro – con quel suo sorriso contagioso, con quella sua dialettica efficace - non stapperà una bottiglia banale.

News | 17/05/2024

Cittadini, l’ultimo urrà

Cercare su Wikipedia alla voce “Lorenzo Cittadini” significa trovarsi di fronte a una falsa informazione: ex-giocatore di rugby.Per il momento e per le prossime ore il Citta è un giocatore di rugby: nel fine settimana sarà in prima linea - dove sennò? -, in Brixia-Trento. Una piccola partita, l’ultima, per un gigante che con la sua presenza la rende importante, da non perdere. Gli addii sono sempre commoventi, nel senso che smuovono i sentimenti, fanno riaffiorare i ricordi che, per chi non è lontano dai 42 anni, sono tanti.Cittadini, pilone di alta statura, forte come un toro, poteva diventare un lanciatore di peso o di disco e in un caso o nell’altro avrebbe spedito lontano la boccia da 7 chili e il “piatto” da due chili. Grosso come un sudaricano, con trascurabile massa grassa, perfetto per spingere, svellere, destabilizzare quello che si trova di fronte a lui. Capace di risollevarsi da un incidente drammatico (frattura molto scomposta di tibia e perone) che qualcun altro avrebbe trasformato in buona giustificazione per la resa. Da quel fulmine che ha colpito il tronco ma non lo ha abbattuto, Lorenzo ha preso una nuova rincorsa che, da Calvisano (dove aveva conquistato uno scudetto), lo ha portato a Treviso (un altro titolo), negli Wasps londinesi, a Bayonne, famosa in Francia per il rugby e per il prosciutto cotto, allo Stade Français.In questi anni di  pellegrinaggio, la collezione di maglie azzurre che alla fin della tenzone sono state 58. Cittadini del vecchio gioco come Lorenzo ce ne sono stati pochi.

News | 03/05/2024

Sara, la luce nei suoi occhi

Molti nomi veneti finiscono in “n”, un marchio doc, sostengono quelli che vedono in quel territorio un lungo patrimonio di storia e di passione.Sara Barattin, trevigiana della Marca, fa parte di questa tradizione sanguigna e generosa. Andrea di Giandomenico, già commissario tecnico delle ragazze, ha detto di lei una cosa bellissima: “Appartiene alla terra”, nel senso che ha sempre saputo calcarla, conoscerne le radici, passarla tra le dita come faceva il Gladiatore.Compagne di avventura in lunghi anni d’azzurro e il nuovo ct Nanni Raineri hanno parlato del suo sguardo, del suo sorriso, del suo pianto in quel momento sacro, non ancora inquinato, che nel rugby sono gli inni nazionali. I gallesi piangono, gli argentini piangono, Sara ha sempre pianto ed è capitato 116 volte, da quel lontano esordio con la Germania al momento dell’addio e di un record che, a occhio, terrà per molto tempo, come tutti i primati preziosi.Sara rimane proprio in quel suo sguardo vigile, degno del suo ruolo (il mediano di mischia può essere uno scorridore e un guardiano di mandria), continua a rimanere presente nelle sue statistiche che assomigliano a collezioni (15 mete e un argento universitario a Kazan in un altro formato, quello a 7, che ha voluto sperimentare) e in quel suo essere pioniera di un gioco che vuole imporsi, nelle Red Panthers di Treviso, nel Casale che l’ha vista tra le madri fondatrici, oggi nel Villorba che, nell’anno che la porterà al 38° compleanno, la vede ancora protagonista.A Cardiff, ultima tappa di un’annata sospesa tra il brillante e il complicato, molte penseranno a lei, a cosa avrebbe detto prima di lasciare gli spogliatoi, di avviarsi verso il prato. Occhi fermi prima di bagnarli di lacrime.

News | 29/04/2024

Paolo Rosi, 1924-2024: una voce e tante storie

Cento anni dalla nascita di Paolo Rosi in un’immagine che scandisce una doppia ricorrenza: 24 aprile 1954, Olimpico di Roma, Italia-Francia, l’ultima partita in azzurro di Paolo che da quattro giorni aveva festeggiato il traguardo dei trent’anni. Il punteggio è severo, 12-39, ma è la Francia dei fratelli Prat e di più non si può fare. Appena cinque giorni prima, a Napoli, Paolo si era concesso un anticipato regalo per il compleanno che stava arrivando: meta alla Spagna, battuta 16-6. La trasformazione è di Paolo Dari, ravennate di Alfonsine, suo compagno alla Rugby Roma. Sino all’anno prima il compito era svolto da Mario Battaglini, detto Maci, rodigino: la sua città gli ha eretto un monumento. Paolo ha avuto il suo nome sul piccolo stadio di fronte all’Acquacetosa, dove spesso la pista è stata calpestata da Marcell Jacobs. Rosi, 12 caps tra il ’48 e io ’54 – a quei tempi si giocava di rado … - è stato un diamante dalle molte facce: azzurro, autore della prima meta di un italiano a Twickenham (capitò per Resto d’Europa-Rosslyn Park in uno di quegli incontri celebrativi che appartengono a un altro tempo), telecronista della Rai per il rugby, l’atletica, il pugilato, divulgatore di una cultura ovale che aveva assorbito e che concesse con generosità a chi lo ascoltava facendosi rapire e cullare dal suo repertorio di aggettivi, di immagini, di ricordi, offerti con stile, misura, senza isterie, con una voce inconfondibile. E’ stato grazie a un suo insistito assedio che il 5 Nazioni è entrato nel tessuto sportivo e rugbystico italiano: così sono state scoperte le cattedrali e le fortezze, l’Arms Park, Murrayfield, Twickenham, il vecchio e tremante Lansdowne Road, il Parco dei Principi, i loro suoni, il loro pubblico, i protagonisti di quella che Paolo il raffinato amava definire “chanson de geste” dello sport moderno. Oggi lo stesso spirito può essere respirato all’Olimpico dei 70.000 e una parte del merito va riconosciuta a questo magnifico centenario che brinda – ricambiato - dai Campi Elisi del rugby.  

News | 20/04/2024

Marco e Massimo: tre anni dopo, indimenticabili

L’11 aprile 2021, a distanza di poche ore, se ne sono andati Marco Bollesan e Massimo Cuttitta. Marco era vicino agli 80, “Mouse”, il topone, ne aveva 55, una delle vittime del Covid, fatale anche a sua madre.Come dicono i francesi, difficile trovare due facce da rugby come loro: un combattente sin dall’esordio, nella Mala Pasqua del ’63, un capitano, un commissario tecnico, un team manager e un pilone-pilastro nella trincea della prima linea, sino a trasformare quella sua esperienza in un’arte da trasmettere, da divulgare: per gli ultimi insegnamenti Massimo scelse la bella isola di Jersey.Sono morti e sono vivi, proprio come dice la haka danzata dagli All Blacks: a Marco è stato intitolato lo stadio del rugby genovese, accanto al nome di Giacomo Carlini azzurro dell’atletica tra la fine degli anni Venti e l’inizio dei Trenta. In realtà quel nome è conficcato nel cuore di tutti quelli che lo hanno incrociato: sono tanti e sono dappertutto.Massimo viene ricordato con la Cuttitta Cup, voluta da FIR e SRU e dal dal fratello e metaman Marcello, sempre più simile a lui, in palio ad ogni contatto tra Italia e Scozia: i sette anni trascorsi ad allenare la mischia dei “Cardi” in blu non potevano esser dimenticati.L’uno e l’altro hanno vissuto un inseguimento che assomigliava ad un’aspirazione: portare il rugby italiano dove non si era mai spinto.Marco, costretto a frequentare palcoscenici minori, a vivere piccoli tour, inventò poco più di mezzo secolo fa l’avventura in Sudafrica, sferzò un ambiente, contribuì a dare una svolta che sarebbe diventata netta un quarto di secolo dopo. Inventò anche le Zebre, i Barbarians italiani, che selezionava con rapidi contatti, costruendo con entusiasmo sfide memorabili, poco usuali. .Massimo era un bambino molto piccolo quando gli “scorridori” di Bollesan atterrarono nel Sudafrica dove lui era arrivato con la famiglia e dove avrebbe iniziato ad assaggiare il rugby ruvido di quei luoghi. Campione d’Italia con il Milan, un’esperienza agli Harlequins londinesi, quelli che giocano a un tiro di sasso da Twickenham, ha avuto il tempo e la chance per diventare uno dei protagonisti della scalata che ha portato la Nazionale a respirare l’aria fina del 6 Nazioni.Marco più Massimo, 116 caps in due: chi può dimenticarli?

News | 11/04/2024

Maria Cristina, la Pioniera

Ne hanno fatto di cammino e a qualcuna deve esser dato il giusto merito per la convinzione, per la cocciutaggine, forse, per la forza mentale impressa in questo itinerario scandito dal desiderio di uguaglianza.Le donne saltano con l’asta, lanciano il martello, corrono maratone con prestazioni invidiate dagli uomini. Le donne giocano a rugby e gli stadi si riempiono. Una nuova, dura, disinvolta “vie en rose”.“E’ la dimostrazione che forza e determinazione non fanno rima solo con maschio”, entra in scena Cristina Tonna, romana di Ostia, trapiantata a Frascati: con un tuffo nell’Inghilterra vittoriane e edoardiana Cristina può esser paragonata a Emeline Pankhurst, la guida delle suffragette. Chissà se un giorno anche lei, coordinatrice dell’ovale di Eva, avrà diritto a una statua.“Lo strumento è la tenacia. Faccio un salto all’indietro di trent’anni abbondanti, quando ho cominciato. Ci guardavano con un risolino, dicevano: siete brutte. Abbiamo lottato e ora certi pregiudizi sono caduti, certe percezioni sono cambiate. Mi è capitato di incontrare vecchi critici: lo sai che mi sono divertito? Mi dicono. E divertito non è il termine giusto: hanno pesato l’impegno, hanno analizzato la determinazione. Hanno capito. Ho incontrato il mio primo allenatore, Lucio Tartaglini. M ha detto: te ricordi, Cristi’, ‘un ce credeva nessuno”.“Nel mio cammino molte donne, molte ragazze, molte bambine – Cristina si accalora sempre quando parla della sua creatura  – e una mi è rimasta dentro: cinque anni, di Savona, Francesca. Tonna, Tonna, mi chiamava. Ma io mi chiamo Cristina, le ho detto. Tonna mi piace di più, mi ha risposto. E così, mi sono detta, qualcosa di buono deve averlo combinato in questi anni di lavoro e di passione e così ho creato un’etichetta, un giochetto di parole, ma giuro, non per incensarmi: la Tonna del rugby”.Il rugby non fa per le donne è il refrain suonato dopo quell’antico Italia-Francia 0-0 a Riccione, con un’adolescente Cristina in campo. Oggi tutto è cambiato: “Un gioco che non ha la fisicità di quello degli uomini, ma che sa svilupparsi in rapidità, in conquista e sfruttamento degli spazi. Ho vissuto questa crescita da giocatrice, da tecnico, da responsabile di un’attività che oggi in Italia può contare su un numero crescente di giocatrici, molte giovani e giovanissime”. Una nuova avventura sta per cominciare.

Italia Femminile | 28/03/2024

Un Ange a Cardiff

Un viaggio nel tempo, nella dimensione di Galles-Italia, porta, nell’assaggio della prima tappa, al frullare di un’allodola, al vorticare di finte appena accennate e letali, a quel che un musicista chiama improvviso: l’invenzione di Ange Capuozzo – e la deposizione dell’uovo nel nido rosso da parte di un estatico Edoardo Padovani – trascina a quel lungo momento di vertigine, a quel delirio concesso a giocatori e ai perduti innamorati. Quindici anni dopo Murrayfield, un’altra roccaforte si arrendeva agli azzurri. E più che a Edimburgo, era stato nel luogo passato alla storia come Arms Park, poi Millennium, ora Principality – lo stadio che riempie il cuore urbano di Cardiff e tende al massimo le corde del sentimento – che l’Italia aveva subito dure punizioni, scandite da quei canti che sanno commuovere e da un mugghiare della folla che ha il suono del mare che si frange sui ciottoli della spiaggia. Il Galles, terra di bardi e poeti, invita al lirismo.E così, in un altro di marzo giallo di asfodeli sui prati e appiccicati sulle vesti dei tifosi di Cymru, aveva assunto un significato quasi miracoloso il 18-18 dell’annata 2006. La corsa finale, a braccio alzato, del cordobes Pablo Canavosio che percorreva sino in fondo una larga breccia, riportava a quella notizia che ogni buon cronista attende per tutta una vita: l’uomo che morde il cane. Quando alla fine mancava poco più di un quarto d’ora, Steve Jones, dal viso di pugile segnato e dal piede sempre ben calibrato, tagliò via metà del sogno e del clamore. E a lungo si discusse, quella sera, se il bicchiere era mezzo pieno o mezzo vuoto. Vuote, nessun dubbio, erano le pinte che si ammonticchiavano sui tavoli e sui banconi dei pub, nella Main street.La macchina del tempo – inventata da un britannico, Herbert George Wells – permette escursioni gratuite e sempre più profonde, riporta a una serata a Llanelli quando quel buonanima di Marco Bollesan e un gallese vennero rappezzati alla meglio da un medico che si era scusato per l’attesa: era impegnato in un parto.Sempre più indietro, sino ai tour artigianali degli entusiasti giocatori romani che si trovavano di fronte, con un tuffo al cuore, i campioni che avevano solo accarezzato con la mente e con la passione. Uno di loro, ancor oggi, racconta che a Cardiff sul botteghino era affisso questo cartello: “Ingresso 2 sterline; se gioca Barry John, 5”.

Italia | 14/03/2024

Tutta la Scozia di Tronky

Soprannome, Tronky. Ma lui, Alessandro Troncon, non era una merendina friabile. Come dicono i francesi, una faccia da rugby. Lui ce l’aveva, ce l’ha. E ora che si avvicina Italia-Scozia, è facile tornare a quel 5 febbraio 2000 al Flaminio – il quarto di secolo non è lontano – quando l‘Italia invitata ad allargare il Torneo ebbe la meglio sulla Scozia che aveva chiuso con il successo finale l’ultimo capitolo del 5 Nazioni, chanson de geste dello sport moderno, come lo chiamava un telecronista che manca a tutti quelli che amano questo gioco romantico, matto, feroce, affascinante. E così il ricordo va più indietro, a due anni prima, e riporta a una fredda giornata di gennaio, a Monigo, alla festa spontanea che esplode quando gli “aspiranti” azzurri battono 25-21 gli scozzesi confermando che i progressi apriranno le porte del circolo frequentato dalle vecchie Union e della Francia. Di quel giorno c’è un simbolo: capitan Troncon, profeta in patria, che portato in trionfo alza il caschetto, trasformandolo in elmo. Le asprezze, il fervore della battaglia sono alle spalle e i protagonisti, sfiniti, onorano se stessi e chi li ha guidati in un giorno non meno importante di quel che verrà. Di quegli anni ruggenti (scanditi dalla vittoria di Grenoble, quella che saldò il conto con la Mala Pasqua del ’63), Alessandro, dal volto segnato di chi non si è mai tirato indietro, è uno dei simboli e la Scozia ricorre ancora nel suo cursus honorum. Numero 9, parentesi Clermont Auvergne, è a Murrayfield il 24 febbraio 2007, un’altra giornata che detta alla francese sona anche meglio, glorieux: prima vittoria esterna (per centrarne un’altra l’attesa sarà lunga quindici anni) dopo un caleidoscopico inizio e un frustrato tentativo di rimonta dei blu. L’ultima meta, quando gli 80’ sono già alle spalle e i volti sono spianati in un estatico sorriso, tocca proprio a lui. Un gruppo di aficonados veneti sfilerà sul prato, in mantello e tricorno. Tronky ha doppiato giusto con una presenza il promontorio delle 100 presenze in maglia azzurra (e l’anno scorso anche quello dei 50 anni) e fa parte di un confraternita esclusiva, è stato 21 volte capitano (l’ultima volta proprio con la Scozia, in un match finito ai punti), ha segnato 16 mete, è stato un volto e un’anima. Brusco e buono.

News | 07/03/2024

Guinness Sei Nazioni 2024: i precedenti tra Francia e Italia

Francia-Italia si giocherà in una sede inedita: lo stadio Pierre Mauroy di Lille, che sarà teatro della sfida numero 49 tra le due squadre. La prima fu addirittura nel 1937, vinta dai francesi 45-5 al Parco dei Principi di Parigi. Il bilancio vede 45 vittorie per i francesi e 3 per l’Italia, con 559 punti segnati dagli azzurri e 1517 subiti. La vittoria più larga dell’Italia è il celebre 40-32 di Grenoble, nel 1997, mentre il miglior successo dei francesi risale all’ultima partita disputata: 60-7 a Lione nell’ultima gara del girone della Rugby World Cup 2023. Le vittorie dell’Italia Il primo successo azzurro arrivò a Grenoble, nell’ormai storica finale della Coppa Europa 1997, vinta 40-32. Le altre due vittorie sono invece arrivate al Sei Nazioni, entrambe in casa. Nel 2011 in rimonta al Flaminio, contro una Francia ancora in lotta per la vittoria del torneo e fermata da un’Italia eroica, capace di rimontare lo svantaggio iniziale con i calci di Mirco Bergamasco e la meta di Andrea Masi, per poi resistere all’assalto finale dei transalpini e vincere 22-21 con una strenua resistenza nel finale contro la mischia francese. Nel 2013 l’Italia si ripeté, stavolta all’Olimpico, con gli Azzurri che dominarono la partita passando in vantaggio con Parisse e gestendo il gioco grazie a una splendida prestazione di Luciano Orquera, che nel secondo tempo propiziò anche la meta di Castrogiovanni. A mettere il sigillo sulla partita ci penso Burton col drop del 23-18 finale. C’è stato anche un pareggio tra le due formazioni, nel 1983 a Rovigo, e un’altra vittoria nella Coppa FIRA 1993 per 16-9 a Monigo, ma in entrambe le occasioni la Francia non assegnò il “cap”. Vicini al successo Dal suo ingresso nel Torneo, l’Italia ha trionfato due volte contro i Bleus, come detto: nel 2011 e nel 2013. Altre volte, però, gli Azzurri sono andati vicini al colpaccio: nel 2016 un’Italia piena di giovani fece venire i brividi alla Francia, ammutolendo lo Stade de France e giocando una grande partita. Protagonista assoluto fu Carlo Canna, unico italiano in grado di mettere a segno un “full house” (almeno una meta, un calcio di punizione, una trasformazione e un drop) in una partita del Sei Nazioni. L’attuale 10 delle Fiamme Oro sbloccò il risultato con un drop, poi Parisse rispose alla meta di Vakatawa, prima della marcatura al 33’ di Chouly per il 10-8. Nella ripresa Canna firmò prima il sorpasso dalla piazzola, per poi segnare – e trasformare – la meta del 10-18. Negli ultimi 20 minuti la Francia risalì la china: meta di Bonneval con trasformazione di Plisson, che al 68’ firmò anche il piazzato del sorpasso. Haimona rispose per il nuovo vantaggio italiano, ma a 5 minuti dalla fine un discusso calcio concesso alla Francia consentì a Plisson di firmare il definitivo 23-21. A nulla valse il tentativo di drop nel finale di Parisse, terminato a lato. Le ultime sfide Anche nell’ultimo incontro nel Sei Nazioni, nel 2023, gli Azzurri sono andati vicinissimi a conquistare la quarta vittoria della loro storia. Dopo una partenza-sprint, la Francia infatti subì il ritorno dell’Italia, che rimase attaccata alla partita con il piede di Allan e poi ritornò sotto grazie alla meta di Capuozzo. Il secondo tempo fu un assalto, con la squadra di Crowley che passò in vantaggio grazie a una meta tecnica conquistata con una maul devastante e a un penalty di Allan. La Francia risolse il match solo nel finale, con una splendida meta di squadra finalizzata da Jalibert per il 29-24 finale. Nulla da fare invece alla Rugby World Cup 2023, con una Francia scatenata che vinse 60-7 a Lione e vinse il girone, condannando l’Italia all’eliminazione.

Italia | 24/02/2024