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Linee di meta: Carlo Bianchi, Tommaso Redondi, Alberto Fantini, Mauro Porcellini

“Ho cominciato a giocare a rugby a Scandicci, dove il mio principale punto di riferimento è stato Alberto Fantini, il mio allenatore. Quando ho cominciato a giocare mi sentivo un po’ inferiore rispetto agli altri, lui invece mi ha sempre sostenuto, portandomi a dare il massimo. Le cose che mi ha trasmesso sono rimaste ancora oggi dentro di me” – Carlo Bianchi “Mauro Porcellini è stato il mio primo allenatore a Rozzano, mi ha fatto conoscere questo sport, mi ha insegnato dei valori fondamentali anche nella vita. Ancora oggi lo ritengo una persona importante, e anche se non ci sentiamo spesso tutto quello che mi ha insegnato me lo porterò dietro per sempre” – Tommaso Redondi A volte un percorso può prendere strade diverse da quelle prestabilite. Le cose non sempre vanno dovrebbero, e proprio per questo avere un allenatore in grado di toccare le corde giuste e seguire i bambini e i ragazzi in questo difficile percorso di crescita è fondamentale. È successo a Carlo Antonio Bianchi, terza linea dell’Italia under 20 e dell’Unione Rugby Firenze, che come racconta Alberto Fantini – che lo ha avuto prima allo Scandicci Rugby, poi al Firenze Rugby 1931 fino all’Unione Rugby Firenze – “all’inizio non era convintissimo, magari metteva il broncio e dovevamo cercare di coinvolgerlo, e spesso ci riuscivamo”. È successo anche a Tommaso Redondi, seconda linea dell’Italia under 20 e del Verona, come racconta Mauro Porcellini, suo allenatore ai tempi del Chicken Rugby Rozzano: “A un certo punto voleva smettere, siamo andati letteralmente a prenderlo a casa”. Quella di Fantini è una storia particolare, quella di un uomo che a sua volta ha scoperto il rugby più tardi, innamorandosene: “Il mio avvicinamento al rugby è stato particolare perché non ho mai giocato. Quando però ho portato mio figlio al primo allenamento mi sono innamorato di questo sport: ho iniziato ad aiutare gli allenatori più esperti e contemporaneamente facevo i corsi per diventare educatore nel minirugby. Negli anni in cui ho allenato Carlo lo Scandicci era nato da poco, eravamo agli inizi: in campo c’erano i nostri figli e pochi altri”. Lo Scandicci, come racconta Fantini, ha avuto una nascita un po’ particolare: “Eravamo la sezione rugby dello Scandicci calcio 1908, un esperimento rivoluzionario in cui i ragazzi potevano praticare entrambi gli sport, poi negli anni le due discipline si sono separate. Andavamo ai giardini pubblici tutte le domeniche con una palla da rugby cercando di coinvolgere altri bambini, piano piano è nato il movimento: prima l’under 8, poi tutte le altre categorie, in un territorio dove il rugby non c’era nel giro di un paio d’anni siamo riusciti ad avere un centinaio di bambini”. Tra i bambini coinvolti c’era proprio Carlo Antonio Bianchi, oggi terza linea dell’Italia under 20 e dell’Unione Rugby Firenze: “All’inizio Carlo era molto timido, quando l’ho preso in under 12 non era ancora convintissimo, a volte aveva il broncio: allora cercavamo di coinvolgerlo e spesso ci riuscivamo. Siamo riusciti a trattenerlo e poi è scattata la molla: è diventato un grande appassionato di rugby e si è migliorato giorno dopo giorno per anni. Magari, rispetto ad altri, Carlo non era un ‘predestinato’ del quale si vedevano subito i numeri: li ha tirati fuori crescendo, lavorando duro, e questo credo si un grande esempio di impegno, sia suo sia di tutti gli allenatori che lo hanno avuto. Credo che la svolta importante sia stata in under 14, quando per formare la squadra abbiamo collaborato col Firenze Rugby 1931: io feci da coordinatore di questo progetto fino poi a passare definitivamente a Firenze, e lui ha avuto la possibilità di giocare ai massimi livelli. Con Carlo ho fatto tutto il percorso fino all’under 18 con l’Unione Rugby Firenze, l’ho visto crescere ed è bellissimo vederlo oggi con la maglia azzurra”. Anche Mauro Porcellini, allenatore e mentore di Tommaso Redondi, è arrivato al rugby senza averci giocato: “L’ho sempre seguito tramite amici che giocavano ai tempi dell’Amatori Milano o qui a Rozzano, quindi dai 14 anni in poi sono sempre stato vicino al mondo della palla ovale e sono sempre stato un tifoso appassionato. Poi, come spesso accade, nel 2010 ho portato mio figlio a giocare a rugby e contemporaneamente ho iniziato questa avventura da allenatore al Chicken Rugby Rozzano”. Si tratta di un club storico, nato nel 1954 da un’idea di Cesare Ghezzi, mediano di mischia e capitano della Nazionale negli anni ’30, e dopo oltre 70 anni continua a formare bambini e ragazzi nella zona sud di Milano, avendo tutte le squadre giovanili dalle prime mete all’under 18, una squadra seniores in Serie C e anche una squadra old. “Tommaso l’ho incontrato per la prima volta in under 8” racconta Porcellini: “È stato un percorso strano perché l’ho sempre allenato un anno sì e uno no. Siccome lavoravo per cicli, ogni due anni salivo di età: lo allenavo un anno in under 8, poi io salivo in under 10 e l’anno dopo lo ritrovavo lì, e così via. Com’era da piccolo? Un pulcino, uno scricciolo (ride, ndr) ma già si vedeva nei suoi occhi quel piacere incredibile nel prendere la palla e correre. E poi mi è piaciuto fin da subito il suo modo di comportarsi, qualsiasi cosa si facesse – anche i semplici ‘giochi’ propedeutici al rugby per prepararsi al contatto, all’andare a terra, a rotolare – lui si divertiva. Non è così scontato, ci sono bambini ai quali è difficile anche solo far fare una capriola, lui invece faceva tutto con naturalezza e col sorriso”. Il percorso di Tommaso Redondi, però, non è sempre stato lineare: “A 14 anni voleva smettere – racconta Porcellini – e aveva proprio abbandonato non solo il rugby ma lo sport in generale. Sono andato letteralmente a prenderlo a casa, credo che il padre ancora mi ringrazi per questo: gli chiesi se voleva smettere per dedicarsi di più allo studio, e quando mi rispose ‘no, nemmeno la scuola’ capii che dovevo riportarlo al campo. E da quando è tornato in campo non ne è più uscito”. Come racconta Porcellini, coinvolgere i ragazzi – anche inserendo attività particolari – è fondamentale: “Ho avuto la fortuna di conoscere e frequentare il mondo del karate, e quindi spesso portavo un’allenatrice al campo. Era importante sia dal punto di vista educativo, perché è uno sport che forma all’autocontrollo, sia propedeutico ad aspetti tecnici del rugby come i placcaggi. Poi per me alla base di tutto c’è sempre il divertimento: ho sempre cercato di instaurare un rapporto che prevedesse ovviamente il rispetto verso una figura più grande ma anche la sicurezza di avere davanti qualcuno di cui potersi fidare e con cui potersi aprire. A livello tecnico ho sempre posto grande attenzioni sulle basi, anche inserendo dei giochi propedeutici a quello. Inoltre, ho sempre lavorato più sulla parte atletica che sul potenziamento fisico ‘puro’, perché è importante che i ragazzi imparino a correre bene, dritti: sono cose importanti non solo nel gioco, ma anche per crescere in salute”.

dalla base | 01/04/2025

Il Presidente FIR e il Presidente di Fiamme Oro premiano l’agente e volontario FIR Filosa

Il Presidente della Federazione Italiana Rugby Andrea Duodo ed il Presidente dei Gruppi Sportivi Fiamme Oro Francesco Montini hanno consegnato una maglia celebrativa della Nazionale Italiana Rugby e una lettera di encomio da parte del Presidente e del Consiglio Federale FIR all’Assistente Capo Coordinatore della Polizia di Stato Giuseppe Filosa.L’agente della Polizia di Stato, appassionato rugbista e da anni membro attivo del programma “Volontari FIR”, era intervenuto in soccorso di una spettatrice colta da improvviso malore in occasione della seconda giornata del Guinness Sei Nazioni Maschile tra Italia e Galles dello scorso febbraio allo Stadio Olimpico di Roma, praticandole le procedure d’emergenza previste in caso di arresto cardiaco, consentendo la stabilizzazione ed il tempestivo trasporto in ospedale.   “Sono felice di aver potuto conoscere Giuseppe insieme al Presidente Montini - ha dichiarato il Presidente della FIR, Andrea Duodo - per manifestargli la riconoscenza del Consiglio Federale e di tutto il movimento per il suo tempestivo intervento che, con l’altruismo tipico dei rugbisti e dei membri delle Forze dell’Ordine, ha consentito alla nostra appassionata di ricevere cure essenziali. La sua azione è stata straordinaria ed è la migliore testimonianza dell’impegno e della passione con cui tutti i nostri Volontari prestano servizio in occasione dei nostri eventi, a cui estendo idealmente il nostro ringraziamento”.  “La tutela della sicurezza pubblica si realizza anche attraverso questi interventi di soccorso. Anche quando è impegnato in altre attività un poliziotto non dimentica mai i suoi compiti istituzionali” ha detto il Presidente d Fiamme Oro Montini. 

News | 26/03/2025

Linee di meta: Vittoria Vecchini e Marco Crivellaro

Marco Crivellaro è stato un punto di riferimento per me ed è stato l’allenatore più importante che ho avuto al Rugby Badia, dall’under 14 fino al primo anno di Seniores. Mi ha aiutata a crescere non solo dal punto di vista rugbistico ma anche come persona: mi ha sempre seguita e ci sentiamo ancora oggi. Pur essendo una persona molto riservata ed introversa non mi hai mai fatto mancare il suo sostegno e il suo affetto, quando ho avuto bisogno di lui, lui c’è sempre stato senza mai esitare un momento – Vittoria Vecchini Vittoria Vecchini è nata e cresciuta rugbisticamente nel Rugby Badia, un club che da sempre ha fatto del settore giovanile uno dei suoi punti di forza, fin dalla sua nascita nel 1981, tanto che per i primi 9 anni della sua esistenza si è occupato esclusivamente di giovani. Negli anni il Rugby Badia è cresciuto sempre di più, sviluppando un settore giovanile riconosciuto in tutta Italia, dal quale è sbocciata anche l’attuale tallonatrice della Nazionale Italiana di Rugby, cresciuta soprattutto da un tecnico – Marco Crivellaro, che si occupava anche della parte organizzativa – che in quegli anni ha fatto un lavoro importantissimo per il movimento femminile. “L’incontro con Vittoria Vecchini è avvenuto durante le visite nelle scuole, come per tante altre ragazze e ragazzi. In quegli anni abbiamo lavorato per creare una vera e propria fileira femminile a Badia: fino ai 12 anni ragazze e ragazzi giocavano insieme, poi abbiamo creato l’under 14, l’under 16, l’under 18 fino alle Seniores con dei numeri anche importanti. Alcune di queste ragazze, oltre a Vittoria, giocano in Nazionale o comunque a livelli di Serie A Elite come Emma Stevanin, Natascia Aggio, Mariachiara Benini ed Elettra Costantini che gioca nell’Italia under 20. Un percorso bellissimo che purtroppo si è chiuso a causa del Covid, ma anche se ora non alleno più a causa dei tanti impegni di lavoro spero possa ricominciare presto” racconta Crivellaro. Al momento, la squadra maschile del Borsari Rugby Badia milita in Serie A, girone 3. “Ho dei bellissimi ricordi di Vittoria. In campo lavorava tanto, si dava da fare, aveva tanta voglia di giocare e di crescere. Fisicamente è sempre stata molto prestante e questo la aiutava, e aveva già delle belle qualità tecniche, ma proprio per questo ho cercato di farla lavorare ancora di più per evitare che si ‘adagiasse’ sull’essere più forte delle altre in quel momento. È cresciuta tantissimo e nel giro di un paio d’anni è diventata davvero brava” racconta Crivellaro: “È importante fare questo tipo di lavoro su ragazze e ragazzi che già a 13-14 anni si presentano con qualcosa in più, far capire loro che non per questo bisogna lavorare meno. E devo dire che lei, come tutte, ha sempre accettato tutti i lavori che le proponevo e che la portavano a crescere ancora di più”. A Badia, in quegli anni, si era creata una vera e propria famiglia: “Oltre a vederci in campo ho tanti ricordi di lei anche fuori, perché spesso si organizzavano cene ed eventi con le ragazze e i loro genitori, quindi ci siamo sempre divertiti tanto. Scherzavamo, giocavamo, abbiamo fatto anche delle gite tutti insieme proprio per creare quell’ambiente familiare e di comunità che è parte integrante del mondo del rugby. A livello rugbistico a Badia abbiamo sempre cercato di lavorare sulla tecnica di base – passaggio, placcaggio, riposizionamento – e sulla parte atletica: penso sia sempre importante crescere giocatrici e giocatori mobili e in grado di muoversi molto. Inoltre, abbiamo sempre cercato di far passare un messaggio importante: il rugby è uno sport per tutti ed è estremamente formativo dal punto di vista umano, perché insegna a darsi sempre una mano l’una con l’altra, a rispettarsi a prescindere da chi possa essere più o meno brava, a mettersi sempre a disposizione”.

dalla base | 25/03/2025

Diabete di tipo 1 e rugby: l’esempio di Mattia

Dare la possibilità ai compagni di sostenerlo nel momento del bisogno.E’ quanto fatto da Mattia Napolitano, giovane rugbista che da quest’anno gioca nell’Under 14 del Cernusco Rugby e che fino all’anno scorso giocava nell’Under 12 del Fennec Fox Rugby di Gessate.Mattia ha il diabete di tipo 1, una patologia cronica che accompagna chi ne soffre per tutta la vita.Con il diabete di tipo 1 purtroppo non si scherza e bisogna saper riconoscere i segnali che la malattia presenta per evitare conseguenze che, in alcuni casi, possono essere tragiche.Per questo Mattia ha voluto incontrare i propri compagni di squadra e i loro genitori per raccontare il diabete di tipo 1 e metterli nelle condizioni di poterlo aiutare nel momento in cui dovesse trovarsi in difficoltà.Ha preparato un power point molto semplice, ma estremamente efficace, e insieme ai propri genitori Stefano Napolitano e Monica Perrello ha radunato la squadra in club house e spiegato nel dettaglio cosa fare nel caso di necessità.Ha parlato sempre lui e la platea è stata ad ascoltare con attenzione. Il diabete di tipo 1 è una patologia che si presenta spesso in età infantile, è caratterizzatadalla presenza di elevati valori di glucosio nel sangue chiamata iperglicemia. Questo avviene perché i propri anticorpi riconoscono come agenti estranei le cellule beta del pancreas che producono insulina.L’insulina ha il compito di abbassare la glicemia nel sangue e la sua quantità si riduce fino ad azzerarsi: così esordisce il diabete.La terapia consiste nella misurazione e la somministrazione continua di insulina tramite iniezioni o macchinetta di infusione chiamata Micro infusore.Per chi è affetto da diabete giovanile, lo sport costituisce uno strumento terapeutico che regola la glicemia e il metabolismo, migliora il benessere psicologico e aumenta la fiducia e il senso di controllo sulla malattia. Certo richiede adattamenti nella terapia e nella dieta, ma questo stimola nel bambino diabetico l'autogestione della glicemia e la collaborazione con il medico e gli educatori.Mattia con il suo gesto ha rafforzato il senso di squadra e integrazione, trasformando una sfida personale in una opportunità di crescita collettiva.Per Questo Mattia ha vinto una delle due borse di studio del concorso nazionale “In campo con Fede”, in memoria di Federico Doga, associazione che ha come obiettivo sensibilizzare i giovani sui valori di altruismo e condivisione.

dalla base | 20/03/2025

Linee di Meta: Francesca e Pierluigi Sgorbini

Pesaro, Bologna, Colorno e Clermont: sono le quattro tappe del viaggio di Francesca Sgorbini, partita dalla “spiaggia dei rugbisti” di Fano, attratta da dei bambini che giocavano con una palla ovale, e arrivata fino alla Nazionale Italiana e a conquistare un campionato italiano e uno francese. Alle Formiche Rugby Pesaro, dove tutto è cominciato, Sgorbini ha continuato ad allenarsi anche durante un primo periodo di stop forzato, e anche durante la stagione al Rugby Bologna - una delle più belle e impegnative della sua carriera, anche a causa della distanza – completava gli allenamenti nella sua città Natale. Poi è arrivato Colorno, la squadra del grande salto, dello scudetto e di un’ambiente che l’ha formata ad alti livelli, fino al trasferimento al Romagnat di Clermont dove ha vinto anche il campionato francese. Un viaggio lunghissimo, impegnativo, che però Francesca ha vissuto con il supporto di una bellissima famiglia alle spalle, una famiglia che in questo caso è stata davvero il 16esimo uomo in campo. Gli inizi: la spiaggia, il volley e le Formiche Pesaro Francesca Sgorbini ha scoperto il rugby per caso, a 6 anni, in vacanza a Fano: “Andavamo al mare lì, vicino alla cosiddetta ‘spiaggia dei rugbisti’, dove vedevo sempre dei bambini giocare a rugby. Ho cominciato a giocare con loro, mi sono appassionata e alla fine dell’estate ho chiesto ai miei genitori di poter iniziare. All’inizio i miei genitori, soprattutto mia madre, erano un po’ titubanti, però io ero convinta. Faccio il primo allenamento con le Formiche Rugby Pesaro sotto il diluvio, nel fango, e quando finisco mamma mi chiede ‘non ti è piaciuto, vero?’. E invece rispondo che è la cosa più bella del mondo”. “Da lì non ha più smesso, anche se contemporaneamente continuava a giocare a pallavolo” racconta papà Pier Luigi: “Poi a 12 anni, quando non ci sono più le squadre miste, ha dovuto smettere per un periodo perché a Pesaro non c’era la squadra femminile. Nonostante questo ha comunque continuato ad allenarsi con i ragazzi, pur senza poter giocare, mentre scendeva in campo nel volley. A un certo punto, però, ha fatto una scelta chiara: mi disse ‘babbo, voglio giocare a rugby’, e a quel punto ho cominciato a cercare in giro quali squadre potessero avere un’under 16 femminile, e siamo andati a Bologna, dove ci ha accolti il responsabile del settore giovanile Lucio Bini, una grande persona. Ricordo il primo viaggio, 150 km di macchina con una coda infinita, ma ne è valsa la pena. A Bologna abbiamo trovato una squadra meravigliosa dove abbiamo davvero respirato l’essenza del rugby giocato, del divertimento e della famiglia. Proprio per questo ci tengo a ricordare l’allenatore di quella squadra, Marco Minardi, che è scomparso troppo presto in un incidente stradale. Una persona stupenda”. Bologna e Colorno: le gioie, le difficoltà e il sogno che si avvera Non è stato un anno facile, considerando la distanza da Pesaro, ma Francesca Sgorbini voleva giocare a rugby a tutti i costi e ci è riuscita. Racconta papà Pier: “La mattina andava a scuola, poi la accompagnavamo in stazione, si allenava e la riaccompagnavano alla stazione per tornare a casa, arrivava alle 11 di sera. Faceva un allenamento a settimana lì oltre alle partite, e per il resto della settimana si allenava con i ragazzi del Rugby Pesaro, che quindi ha avuto un ruolo importantissimo anche in questo periodo particolare”. In quel periodo il sostegno della famiglia è stato fondamentale, come sempre nel corso della carriera di Francesca, che racconta: “Quando si è giovani il supporto dei genitori è fondamentale, quando a 12 anni sono stata costretta a smettere per un periodo ho vissuto una fase complicata, anche perché era da poco scomparsa mia nonna, e avere una famiglia così unita è stato fondamentale. Quando ho sentito il bisogno di dedicarmi solo al rugby sono stati importantissimi. A Bologna è stata dura perché tornavo la sera alle 11, ma mi piaceva tantissimo: quando andavo in campo riuscivo a liberarmi e ad essere felice”. A Bologna, oltre a vivere un’esperienza stupenda, Sgorbini dimostra anche di avere le carte in regola per andare avanti: “Dopo questo bellissimo anno – racconta Pier Luigi – il profilo di Francesca ha cominciato a destare interesse, e abbiamo cominciato a capire dove potesse continuare il suo percorso. In questo frangente siamo stati aiutati da due persone importanti: Ruben Reggiani, un fotografo che veniva spesso a vedere le partite, e all’attuale consigliera Erika Morri. Secondo loro Colorno poteva essere il posto giusto per proseguire, e dopo il solito viaggio della speranza in macchina (ride, ndr) abbiamo incontrato il presidente Ivano Iemmi e l’allenatore del Colorno femminile Christian Prestera, altre due persone importanti nella crescita di Francesca. Proprio coach Prestera dopo un triangolare con Villorba e Valsugana mi disse ‘Francesca può arrivare ad ottimi livelli’. A Parma è andata a vivere in collegio, dove ha continuato a studiare: anche lì non è stato tutto facile, ma è diventata subito titolare e quell’anno Colorno vinse lo scudetto”. Un altro elemento fondamentale per arrivare a Colorno, come racconta Francesca, fu Nicola Boccarossa: “Lui giocava a Colorno e veniva da Pesaro, fu lui a mettermi in contatto con la società. Poi c’è stato il solito viaggio in macchina e da lì è cominciato tutto. Era un sogno perché a 16 anni mi sono trovata a contatto tutti i giorni con ragazze che giocavano già in Nazionale, e poi stavo andando a vivere fuori di casa per giocare a rugby, per inseguire il mio sogno”. Veder andar via di casa una figlia così presto, a 16 anni, non è una cosa da poco, ma su questo aspetto Pier Luigi Sgorbini è sempre stato convinto: “Non è stato facile, sicuramente, ma in famiglia abbiamo sempre cercato di dare questo imprinting sia a Francesca sia a Luca, suo fratello. Abbiamo sempre voluto che facesse ciò che riteneva fosse meglio per lei, non abbiamo mai voluto forzarla: ovviamente siamo stati sempre presenti alle partite, anche in trasferta, facendo viaggi lunghi, ma comunque è stato giusto che facesse la sua vita e il suo percorso, senza sostituirci alle sue scelte ma seguendola e aiutandola”. Ricorda Francesca: “È stata tosta, perché comunque mi sono trovata a vivere da sola a 16 anni, soprattutto il primo anno sentivo molto la mancanza della mia famiglia. Però i miei genitori ci sono sempre stati, anche in trasferta. Ricordo una partita in veneto in cui c’era un solo spettatore: mio padre. Era venuto fin lì per me. Così come mio nonno, il padre di mio padre, veniva con lui per seguirmi. E poi ovviamente non si può prescindere dal sostegno economico che mi hanno dato per poter stare fuori, hanno creduto nel mio sogno e una delle cose più belle è proprio essere riuscita a ripagare la loro fiducia”. Verso la Francia: Romagnat Dopo lo scudetto con Colorno è arrivato l’ultimo e deciso passo avanti, quello verso la Francia. Racconta Francesca: “I miei genitori mi hanno sempre lasciato molto libera. Fino a quel momento però avevo vissuto tutto con l’incoscienza di chi è giovane. Non mi rendevo davvero conto di quello che stava succedendo: alla fine andavo a scuola e poi giocavo a rugby, quello che mi piaceva. Quando poi c’è stato il passaggio successivo, con il trasferimento al Romagnat di Clermont, credo di aver preso realmente consapevolezza di quello che stavo vivendo. Quando mio padre mi accompagnò in aeroporto ho cominciato a sentire un po’ di ansia: stavo andando in un posto completamente nuovo, senza conoscere la lingua. Non ho visto spesso mio padre piangere, ma quel giorno anche lui aveva le lacrime agli occhi, lì mi sono reso conto della portata di ciò che stavo facendo, ma anche lì lui continuava a ripetermi che sarebbe andato tutto bene, lo ha sempre fatto. Anche lì, comunque, sono sempre stati presenti: ricordo i tanti viaggi in macchina di mamma e papà per venire a vedermi e a salutarmi. Ci sono stati momenti duri per me e anche per loro, e mi riferisco agli infortuni più gravi che ho avuto, e penso sia complicato per un genitore vedere una figlia che sta male, che soffre e che è anche lontanissima da casa. Mi hanno sempre spinto a dare il massimo, ad avere coraggio e a non tirarmi mai indietro anche in questi periodi: mi sono sempre stati vicini anche da lontano, anche con dei piccoli pensieri come potevano essere un uovo di Pasqua o un regalino. Non li ringrazierò mai abbastanza”.

dalla base | 19/03/2025

25 anni di Sei Nazioni – Incontri nella storia: Italia v Irlanda

Questi celti in verde ce li ritroviamo tra i piedi di frequente, perlomeno una volta l’anno, e a loro sono legati ricordi grami di aride stagioni ma anche momenti da scaldare nel tepore della memoria: è l’unico paese ovalmente evoluto a cui, ai gloriosi tempi di Georges Coste, rifilammo tre sonate per arpa e nitroglicerina, avrebbe detto quel buonanima di Hugo Pratt, lasciandoli più che umiliati, stupiti. Due vennero nell’arco giusto di un anno, tra gennaio e dicembre, in una Dublino molto fredda (e in un Lansdowne Road dalle strutture sempre più traballanti) e in una Bologna prenatalizia e inondata di sole. Il 1997 è una delle annate pregiate nella cantina italiana, come un Barolo del ’64. Tra un’Irlanda e l’altra, c’era stata Grenoble, la gloriosa giornata, il conto saldato con  la Mala Pasqua del ’63. A Dublino (estremo irlandese Conor O’Shea che in seguito avrebbe ancora incrociato il cammino di Ovalia) due mete di Paolino Vaccari (protagonista anche del primo successo, quello trevigiano datato 1995), una di Massimo Cuttitta, una di Diego Dominguez dal piede implacabile. A Bologna, mete di Pilat, Stoica e naturalmente di Diego che riempì il pomeriggio di parabole a segno e destinate a lasciare il segno. Se le vogliamo considerare un’andata e un ritorno, 37 punti alla prima, 37 alla seconda. L’accesso alla mensa dei grandi era cosa fatta dopo la rete di rapporti tessuta da Giancarlo Dondi, nel Risorgimento rugbystico italiano un conte di Cavour. In realtà i celti se li ritrovarono in casa proprio i romani, 2300 anni fa, quando Brenno invase la città esigendo un forte tributo in oro, gettando la spada sulla bilancia e minacciando: “Vae victis, guai ai vinti”. Brenno è un nome dall’aria famigliare: la latinizzazione di Brian, di Bryn? La prima volta dell’Irlanda all’Olimpico è arrivata proprio come capiterà tra poco, nei giorni musicali e birrosi di San Patrizio e per l’Italia quel 16 marzo 2013 si è trasformato in una data storica. Per lunghe e aspre stagioni rappresentava il ricordo, sempre più sbiadito, dell’ultima vittoria. I piedi giusti furono quelli di Luciano Orquera, cordobes come Diego, e di Gonzalo Garcia da Mendoza, la meta, l’unica, di Giamba Venditti che ne avrebbe segnata un’altra, memorabile, al Sudafrica. Quel giorno, a Firenze, qualcuno domandò a Sergio Parisse se quella era la più grande vittoria del rugby azzurro. La risposta fu un capolavoro di fierezza e di brevità: “Sì”.

News | 13/03/2025

Linee di meta: Nicola Bolognini, Federico Zanandrea, Emanuele Pegoraro, Guido D’Addario

“Ho fatto tutto il percorso delle giovanili nel Monti Rugby Rovigo Junior, dove ho conosciuto Emanuele Pegoraro, il mio allenatore durante gli anni dell’under 14. È stato per me importantissimo perché mi ha fatto capire il vero significato di questo sport, mi ha fatto appassionare ancora di più mettendo sempre al primo posto il divertimento dei ragazzi” – Nicola Bolognini “Ho cominciato a giocare a Villorba, ma sono arrivato presto al Benetton, già in under 6. Il mio riferimento è stato Guido D’Addario, che è stato il mio allenatore in Benetton dall’under 12 fino all’under 17. Gli devo molto” – Federico Zanandrea Nicola Bolognini e Federico Zanandrea vengono da due grandi realtà del rugby italiano: Rovigo e Benetton. E soprattutto, hanno trovato due allenatori in grado di guidarli non solo a livello tecnico, ma anche umano ed educativo, contribuendo a farli arrivare fino all’Italia under 20. Nicola Bolognini, pilone dell’Italia under 20 e del Rugby Badia, è cresciuto nel Monti Rugby Rovigo Junior e deve tanto a Emanuele Pegoraro, che ha giocato a Rovigo e poi in Serie A fino ai primi anni 2000, ha smesso presto a causa di una serie di infortuni, e poi ha iniziato subito la carriera di allenatore, prima a Badia – dove aveva fatto gli ultimi anni da giocatore – per poi tornare a Rovigo, dove allena da oltre 15 anni. “Il Monti Rugby Rovigo Junior è parte di una realtà dove si vive di rugby, basta vedere le partite della prima squadra e il calore della tifoseria. Fino all’under 14 lavoriamo principalmente con ragazzi di Rovigo o zone limitrofe, poi in under 16 e in under 18 integriamo le squadre che magari non riescono ad avere un gruppo completo. Ci troviamo quindi ad avere un gruppo anche di 60 giocatori con i quali si può fare anche una doppia squadra, cerchiamo di essere il fulcro del movimento della zona, come Treviso, Padova, Verona”. “Ho allenato Nicola in under 14, dove si fa il passaggio al gioco ‘reale’, molto vicino a quello seniores” racconta Pegoraro: “A pelle ho avuto l’impressione di avere davanti un ragazzo volenteroso, costante, ma soprattutto molto intelligente: capiva tutto subito, si adattava velocemente alle situazioni. E poi non mancava mai a un allenamento, doveva essere proprio malato non per venire. Il suo comportamento era un esempio e uno stimolo anche per gli altri ragazzi. Era bravo anche a scuola, faceva il liceo scientifico a Rovigo e ha sempre avuto buoni voti. Era sempre allegro e felice, portava tanta positività in campo, poi quando era il momento di lavorare seriamente invece era il primo a dare il 100% portandosi dietro anche gli altri. Ho allenato anche suo fratello minore, che aveva lo stesso atteggiamento, e questo fa capire anche l’importanza di avere una famiglia come la loro, in grado di dare un’impostazione e un’educazione giusta”. La presenza di giocatori che fin da subito danno l’impressione di avere un rugby nel DNA rende ancora più importante il ruolo dell’allenatore, che deve inserire comunque questi ragazzi in un contesto di squadra affinché migliorino ancora e migliorino contemporaneamente anche gli altri: “In under 14 si vede tanto la differenza fisica, quindi si può anche impostare il gioco dando la palla al ragazzo più grosso, ma non servirebbe a crescere. Personalmente e anche a livello di club, a Rovigo abbiamo sempre cercato di inserire questi giocatori in un contesto che valorizzi tutti: i più bravi devono dare l’esempio e devono contribuire anche a far crescere tutti gli altri, anche se magari il risultato immediato non arriva. La crescita è più importante del risultato della singola partita. Faccio un esempio: se a inizio stagione ho 20 ragazzi il mio obiettivo deve essere quello di averne 25 l’anno successivo, non 15 perché alcuni si perdono per strada. Poi magari non tutti diventano dei campioni come Nicola o come Mirko Belloni, che ho allenato sempre in under 14 e che adesso viene invitato ai raduni da Gonzalo Quesada, ma la cosa importante è dare a tutti gli strumenti per crescere non solo nel rugby ma nella vita”. Per Federico Zanandrea, centro del Mogliano e dell’Italia under 20, il principale riferimento è stato Guido D’Addario, ex giocatore, adesso allenatore e fino all’anno scorso anche responsabile del settore giovanile del Benetton: “Col rugby è stato amore a prima vista. Mia mamma mi portò a una partita di mio fratello quando avevo 6 anni, il giorno dopo ho iniziato a giocare anch’io. Ho fatto tutto il minirugby a Mogliano, poi sono passato in Benetton fino alla Serie A, poi ho smesso a causa di un infortunio e sono rimasto nel mondo del rugby come allenatore. Ho iniziato con il minirugby ed è stato come innamorarsi di nuovo di uno sport che già amavo. Lavorare con i bambini è bellissimo. In questo periodo ho conosciuto ragazzi come Federico Zanandrea, Piero Gritti e Giulio Sari” racconta D’Addario: “A Treviso le giovanili sono importantissime. Abbiamo la doppia squadra in tutte le categorie, a volte nei più piccoli anche di più. Inoltre a inizio stagione facciamo una settimana gratuita di stage che serve sia a far ricominciare i nostri tesserati sia a far avvicinare bambini e bambine nuovi: arrivano in tantissimi ed è compito nostro provare a conquistarli”. “Federico aveva questa capacità di essere tranquillissimo nei momenti di svago e iper-concentrato e competitivo durante gli allenamenti e le partite. Era così in under 10 ed è così ancora oggi. Aveva già le caratteristiche che lo hanno portato fino all’Italia under 20: era molto forte nell’uno contro uno, sul quale comunque ha fatto un grande lavoro per migliorarsi sempre di più. Chiaramente quando hai dei ragazzi così forti devi insegnare loro anche ad inserirsi in un contesto di gruppo. La sua bravura nell’uno contro uno e la sua capacità di risolvere le cose da solo all’inizio gli ha reso più difficile gestire le superiorità e giocare con i compagni, ma ha fatto un grande lavoro di apprendimento. E in questo secondo me il ruolo dell’allenatore è importantissimo: è vero che l’obiettivo è segnare la meta e quindi se la segna da solo il ragazzo pensa che vada bene lo stesso, ma è importante fargli capire che quando si cresce e le fisicità si livellano se non si impara a leggere le situazioni diventa tutto più difficile. Per fare un esempio, a livello di Mondiale o Sei Nazioni under 20 il due contro uno non lo risolvi sempre battendo il tuo avversario, devi giocare col compagno, e Federico ha fatto un grande lavoro su questo”. D’Addario, che fino all’anno scorso è stato anche responsabile di tutto il settore giovanile, ha poi raccontato come il Benetton unisce la parte di crescita tecnica a quella educativa e umana: “Nel minirugby più che di allenatori si parla di educatori. È giusto insegnare fin da subito l’importanza del lavoro, ma la cosa più importante è che si divertano e crescano in un ambiente sano. A Treviso abbiamo tanti numeri e questo aumenta anche la competizione all’interno dei gruppi, e il nostro obiettivo deve essere fare in modo che tutti i ragazzi possano rimanere nell’ambito del rugby, come giocatori ma anche come allenatori o arbitri, ad esempio. A tutti i ragazzi, compreso Federico, ho fatto fare il corso da arbitri e quello da allenatore: c’è chi chiaramente prova a fare tutto il percorso da giocatore per arrivare all’alto livello, ma anche chi può costruirsi una strada alternativa. Molti ragazzi usciti dalle giovanili del Benetton allenano, alcuni arbitrano, e questa per noi è la vera vittoria: tenerli il più possibile legati al mondo del rugby e al nostro movimento”.

dalla base | 11/03/2025

Linee di meta: Michele Lamaro e Marco Sepe

“Difficile identificare, tra i tanti, un momento in particolare che mi lega a Marco Sepe, una delle persone più importanti nella mia crescita rugbistica e mio allenatore nelle giovanili del Primavera Rugby. Ricordo quando feci un intervento in ruck e lui disse a mia nonna “Vede, Michele non ha paura”, e questa cosa le rimase talmente impressa da ripetermela sempre. In qualche modo è entrata dentro di me. E poi ricordo quanto ci spingesse ad essere felici di giocare insieme, indipendentemente dal risultato” – Michele Lamaro Una vita al Primavera, prima da giocatore e poi – dopo un infortunio – da allenatore delle giovanili. Proprio all’inizio di questa seconda vita sportiva, Marco Sepe – che adesso lavora a Londra – ha incontrato il piccolo Michele Lamaro: “Ho iniziato a giocare a rugby nel 1993 alla Primavera, facendo tutto il percorso delle giovanili fino all’under 18, quando un infortunio mi ha portato a smettere e a diventare allenatore. Ho cominciato nel 2004, e proprio nella prima squadra che ho allenato ho trovato Michele”. Proprio il Primavera Rugby, club storico nato a Roma nel 1976 proprio con l’obiettivo di occuparsi fin da subito dei più piccoli, come spiegherà poi anche Sepe, è il luogo dove l’attuale capitano della Nazionale è cresciuto per ben 8 anni. “È sempre stato un bambino vivace, vispo, sveglissimo, ricettivo” racconta Sepe: “A 6 anni praticamente era già un capitano. Ricordo uno dei primi tornei in trasferta che facemmo ai tempi: la sera vado a fare il controllo delle stanze, tutti i bambini avevano il pigiama, lui era sotto le coperte con maglietta, pantaloncini e calzettoni per il giorno dopo. Gli chiedo: ‘Non ti metti il pigiama?’. E lui mi dice: ‘No, preferisco così, domani mattina devo solo lavarmi e fare colazione e sono pronto’. Praticamente un soldato! (ride, ndr). E poi era assolutamente autonomo fin da piccolo, al massimo veniva il fratello Pietro a controllare, ma aveva una maturità impressionante”. “Un’altra cosa che mi ha sempre impressionato è la sua capacità di trovare soluzioni, di adattarsi ai problemi e di migliorarsi continuamente. Quando non gli veniva una cosa si arrabbiava, ma ascoltava i consigli degli allenatori e ci provava finché non ci riusciva. Pur essendo sempre stato molto completo da bambino non era velocissimo. Per lavorare sulla velocità facevo fare ai bambini un esercizio di propriocettività, una sorta di ‘acchiapparella’ uno contro uno scalzi, in cui ogni bambino doveva riuscire a toccare quello che aveva di fronte. Lui già a 7 anni, per sopperire alla mancanza di velocità, utilizzava dei cambi di direzione per sbilanciare l’avversario e non farsi prendere: in due anni non è mai stato preso da nessuno. Poi a 7 anni giocava già in under 9, disputammo un torneo importante e a un certo punto Michele andò via aprendo un intervallo, si trovò davanti l’ultimo avversario: fece un doppio cambio di passo, destra-sinistra e destra-sinistra due volte, il bambino si siede per terra e lui va a fare meta. L’allenatore della squadra avversaria viene da me urlando davanti a tutti: ‘Non è possibile, questo bambino è più grande, dovrebbero squalificarvi’. Io lo abbraccio e gli dico ‘Amico mio, lo sai che lui ha 7 anni? È il più piccolo di tutti’. È rimasto scioccato”. Quando ci si ritrova, soprattutto nelle categorie giovanili, con un bambino così forte, il lavoro degli allenatori e delle società diventa fondamentale per fare in modo che cresca nella maniera giusta e che allo stesso tempo anche tutti i compagni possano migliorare senza esserne oscurati. Spiega Sepe: “Sotto questo aspetto il Primavera Rugby è sempre stato l’ambiente giusto, del resto questo club era nato nel 1976 proprio per occuparsi del settore giovanile del Cus Roma, e il nome stesso – Primavera – rimanda alla formazione dei giovani. Io dico sempre che tutti partono dallo stesso punto. Poi ovviamente c’è chi ha qualcosa in più, ma la cosa importante è far percepire loro che sono ancora bambini, devono vivere l’esperienza in modo sano, che sia la gioia di una vittoria o la delusione di una sconfitta. In questo poi Michele non ha mai creato problemi, anzi, era già un capitano nel senso più positivo del termine, perché trascinava in maniera sana e positiva anche gli altri bambini, che si appoggiavano a lui. Faceva dei discorsi incredibili, in cerchio con i compagni, già a 7-8 anni, era uno spettacolo, e spingeva tutti gli altri bambini a impegnarsi di più”. “Tutto questo – prosegue Sepe – rappresenta perfettamente ciò che è lo spirito del Primavera, che ha sempre dato una grandissima attenzione ai ragazzi e ai bambini. Noi abbiamo sempre lavorato cercando di sviluppare l’aspetto umano allo stesso modo di quello sportivo. La Primavera magari ha vinto pochi trofei, ma è sempre stata una squadra in grado di far crescere i ragazzi nel modo giusto. Dalla Primavera è uscito anche Ludovico Nitoglia, e anche mio fratello Michele Sepe è partito da qui ed è arrivato a ottenere 3 caps con la Nazionale”. Infine, Sepe conclude con un aneddoto legato proprio al racconto introduttivo fatto da Lamaro: “La nonna era molto presente. Non viveva a Roma ma veniva spessissimo per veder giocare lui e il fratello Pietro. Una volta siamo andati tutti insieme a una partita dell’Italia under 18 in cui era in campo Pietro e in tribuna c’era anche Georges Coste. Fu bellissimo perché Coste parlava solo con la nonna, appassionatissima (ride, ndr). Al di là dell’aneddoto, però, è una cosa molto indicativa: Michele è cresciuto così perché ha avuto alle spalle una famiglia che gli ha fatto vivere lo sport in maniera sana, senza imposizioni o pressioni”.

dalla base | 07/03/2025

25 anni di Sei Nazioni – Incontri nella storia: Inghilterra v Italia

Twickenham, 25 chilometri dal centro di Londra, 25 anni luce dentro la leggenda: più che cattedrale, fortezza e come tutte le fortezze, anche quelle che hanno la fama di inespugnabili, destinate a cadere. Non solo l’hanno conquistata le tre grandi degli antipodi, ma anche l’Argentina (la prima volta con una full house di Todeschini) e più di recente anche le Fiji. Francia, Galles e Scozia là, nella contea del Middlesex, hanno scritto e tramandato pagine memorabili. Dodici anni or sono, 10 marzo 2013, non è andata lontana dall’impresa l’Italia, quando riuscì a zittire gli 82.000 cantori, costretti a un sommesso brusio, mettendo da parte una sicurezza che può sconfinare nell’arroganza. Una partita scandita dai calci di Toby Flood, da quelli di un altro “cordobes” dal piede prezioso, Luciano Orquera, dalla meta di Luke McLean che alla fine sarebbe risultata l’unica in quel pomeriggio di fine inverno. Nel punteggio, 18-11, abitano l’orgoglio e il rimpianto.   Sul pianeta proibito era sbarcato nel ’52 Paolo Rosi: Rosslyn Park-Resto d’Europa per il 75° anniversario del vecchio club. “Una finta a destra, una finta a sinistra e so’ annato in mezzo ai pali”, raccontava The Voice del rugby, dell’atletica, del pugilato e sembrava una saga: Twickenham era una Mecca, una Shangri-la, una fortezza Bastiani del rugby. “Nel marzo del ’74 giocammo in Inghilterra con Middlesex, Sussex e Oxfordshire, tutte perse con onore e pacche sulle spalle. Il sabato c’era Inghilterra-Galles e ci portarono a Twickenham. Trattamento di lusso: nel cestino da viaggio c’era fagiano in gelatina e una mezza di Moet Chandon”: la testimonianza è di Marco Bollesan, capitano di un’Italia che andò a misurare progressi che parevano vagiti. Twickenham era là e sembrava esserci sempre stato, grigio e solenne, la casa del rugby inglese, il posto della Rosa, il luogo dove un vecchio capitano di radici parmigiane e piemontesi, Lawrence Dallaglio, disse che “qui nessuno è benvenuto”. Nel ’99 Twickenham ancora severo maestro. “Perché? Gridai a Leonard che mi aveva incornato alla schiena come un caprone togliendomi il respiro. Rispose con un grugnito”: ed è il racconto di un Mauro Bergamasco 20enne, spedito nella mischia per una solenne batosta, 67-7. Due anni dopo sarebbe andata anche peggio: 80-23, dopo un primo tempo giocato alla pari e un secondo che pareva la Zattera della Medusa. “Solo le squadre mediocri si accontentano di sconfitte con il minimo scarto”: la premessa di quel che avverrà è di Sergio Parisse, capitano in eterno.

News | 07/03/2025

Linee di meta: Roberto Fasti, Gianmarco Pietramala, Claudio Suriano, Alejandro Rios

“Sono cresciuto nel Florentia Rugby, qui a Firenze, e nella mia crescita rugbistica Claudio Suriano è stato fondamentale. L’ho conosciuto dai tempi del minirugby e poi mi ha allenato quando sono diventato più grande, è stata una presenza costante” – Gianmarco Pietramala “Gioco a rugby da quando avevo 5 anni. Il club a cui sono più legato è quello dove ho cominciato, il Firenze Rugby 1931, dove ho conosciuto una delle persone più importanti della mia vita: Alejandro Rios. Oltre ad essere stato il mio allenatore mi ha aiutato ha superare un brutto infortunio quando ero piccolo, lo ringrazierò per sempre e lo ammiro per la persona che è” – Roberto Fasti Due uomini di rugby, ma soprattutto due educatori, sono stati i protagonisti del viaggio che ha portato Gianmarco Pietramala e Roberto Fasti a vestire la maglia dell’Italia under 20. Claudio Suriano è attualmente allenatore della squadra cadetta dell’Unione Rugby Firenze e per anni è stato tecnico delle giovanili del Florentia Rugby, club che a livello seniores e under 18 si è unito al Rugby Firenze 1931 ma che continua in proprio l’attività giovanile: “Anche se adesso viaggia su due binari, essendoci l’Unione, il Florentia nasce e lavora soprattutto nel quartiere 4 di Firenze, in periferia. E il suo obiettivo è sempre stato non solo sportivo ma umano: dare un riferimento a quella che fino a una ventina di anni fa era una periferia difficile, cercando di portare in campo dei ragazzi che altrimenti avrebbero passato delle giornate per strada. Volevamo tenere lontani ragazzi dai rischi della vita ‘di periferia’ e contemporaneamente insegnare loro uno sport bellissimo. È andata benissimo, anche perché dal quartiere 4 il bacino si è allargato e sono arrivati ragazzi anche da altre realtà più lontane come Lastra a Signa, dalla quale vengono i fratelli Cannone, Scandicci e Legnaia. Siamo riusciti sempre a mantenere alta l’attenzione sull’aspetto educativo dello sport, e contemporaneamente sono arrivati anche i primi risultati: dal Florenzia è venuto fuori anche Francesco Bini, che lo scorso anno ha giocato in under 20, oltre ai già citati fratelli Cannone”. Proprio al Florentia è cresciuto Gianmarco Pietramala, mediano di apertura ed estremo dell’Unione Rugby Firenze: “L’ho conosciuto prima ancora di allenarlo, perché frequentava dei campi estivi a 6-7 anni anche se io allenavo ai tempi l’under 16. La prima cosa che mi ha colpito di ‘Jimmy’ è che andava a letto col pallone, letteralmente: gli altri ragazzi magari a quell’età hanno i pupazzetti, gli orsacchiotti. Lui no, dormiva col pallone. Il talento naturale che ha sempre avuto veniva accompagnato da una passione incredibile per il rugby, e questa cosa già mi colpì molto. Quando sono diventato responsabile del minirugby ho cominciato a seguirlo in maniera più concreta, anche perché quando c’è un bambino di quel talento nel club lo conoscono tutti. L’ho allenato poi in under 17 e under 18, anche se poi è diventato subito un elemento fondamentale della prima squadra nonostante fosse giovanissimo. In under 17 lo nominai anche capitano perché era davvero un leader, ma nell’accezione più positiva possibile del termine: era un trascinatore e i compagni gli volevano bene”. Passando “dall’altra parte”, nel Rugby Firenze 1931 è cresciuto il mediano di apertura del Rugby Casale Roberto Fasti, diventato campione d’Italia under 18 con il Benetton e ora a disposizione degli Azzurrini. Ad oggi, il Rugby Firenze 1931 conta circa 400 atleti suddivisi in categorie, dai 5 anni di età fino alla seniores e alla squadra old, oltre alla fusione a livello seniores con l’Unione Rugby Firenze che milita in Serie A. L’incontro che ha cambiato la vita di Fasti è stato quello con Alejandro Rios, ex mediano di apertura e centro di Firenze, poi allenatore e preparatore atletico, laureatosi in Scienze Motorie proprio a Firenze, per un totale di 12 anni passati in Toscana prima di tornare in Argentina, dove vive la sua famiglia: “Ho visto Roberto crescere fin dall’under 6, perché ero responsabile di tutto il settore giovanile. Fin da piccolo aveva qualcosa di speciale, oltre a una voglia incredibile di impegnarsi che lo portava ad essere sempre il primo ad arrivare a ogni allenamento. Vederlo in Nazionale mi rende davvero orgoglioso, così come sono felice di aver allenato anche altri ragazzi che oggi stanno facendo strada, come Olmo D’Alessandro e Lapo Frangini”. Il momento che però unisce davvero Fasti e Rios è un infortunio, il primo della giovane carriera di Roberto: “A 8 anni si ruppe l’omero – racconta Rios – e a quel punto oltre a seguirlo come tecnico lo seguii anche nella riabilitazione. Fu una cosa importante per lui, ma anche per me, perché capii come a Firenze potevamo lavorare in un certo punto anche nella prevenzione degli infortuni. Facevamo tantissimi esercizi sulla tecnica individuale: placcaggio, calcio, passaggio, sempre con il pallone ovviamente perché i ragazzi e i bambini devono divertirsi, ma era tutto importantissimo per farli crescere nel modo giusto, anche dal punto di vista della salute. Più impari a fare bene un movimento, meno rischi di farti male. Proprio per questo con il Rugby Firenze facevamo anche degli esercizi in piscina, per migliorare l’equilibrio e la propriocezione: era tutto parte di un progetto che ha sempre messo al primo posto la passione per il rugby e la volontà di trasmettere dei valori umani, facendo capire ai ragazzi che questo è uno sport duro ma mai cattivo. Poi chiaramente, anche per affinità di ruolo, con Roberto si è creato un rapporto speciale: gli ho insegnato fin da bambino tutti i tipi di calci e il modo in cui un numero 10 deve passare il pallone”.

dalla base | 03/03/2025