Molti nomi veneti finiscono in “n”, un marchio doc, sostengono quelli che vedono in quel territorio un lungo patrimonio di storia e di passione.
Sara Barattin, trevigiana della Marca, fa parte di questa tradizione sanguigna e generosa. Andrea di Giandomenico, già commissario tecnico delle ragazze, ha detto di lei una cosa bellissima: “Appartiene alla terra”, nel senso che ha sempre saputo calcarla, conoscerne le radici, passarla tra le dita come faceva il Gladiatore.
Compagne di avventura in lunghi anni d’azzurro e il nuovo ct Nanni Raineri hanno parlato del suo sguardo, del suo sorriso, del suo pianto in quel momento sacro, non ancora inquinato, che nel rugby sono gli inni nazionali. I gallesi piangono, gli argentini piangono, Sara ha sempre pianto ed è capitato 116 volte, da quel lontano esordio con la Germania al momento dell’addio e di un record che, a occhio, terrà per molto tempo, come tutti i primati preziosi.
Sara rimane proprio in quel suo sguardo vigile, degno del suo ruolo (il mediano di mischia può essere uno scorridore e un guardiano di mandria), continua a rimanere presente nelle sue statistiche che assomigliano a collezioni (15 mete e un argento universitario a Kazan in un altro formato, quello a 7, che ha voluto sperimentare) e in quel suo essere pioniera di un gioco che vuole imporsi, nelle Red Panthers di Treviso, nel Casale che l’ha vista tra le madri fondatrici, oggi nel Villorba che, nell’anno che la porterà al 38° compleanno, la vede ancora protagonista.
A Cardiff, ultima tappa di un’annata sospesa tra il brillante e il complicato, molte penseranno a lei, a cosa avrebbe detto prima di lasciare gli spogliatoi, di avviarsi verso il prato. Occhi fermi prima di bagnarli di lacrime.
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Sara, la luce nei suoi occhi
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