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INFINITO SERGIO

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parisseaddio
di Giorgio Cimbrico

Un sorso di Bordeaux, non di champagne, per l’ultima di Sergio Parisse, per l’addio del master and commander che ha governato molte rotte, del capitano che ha attraversato il tempo, le generazioni, per la statua in movimento che meriterebbe un posto alla Galleria dell’Accademia fiorentina, nudo, per fronteggiare, in un’installazione molto classica, priva delle inutili provocazioni dell’età contemporanea, il David michelangiolesco. Firenze, il luogo in cui con una parola lunga un soffio – “Sì” – dichiarò che l’Italia, la sua Italia, aveva appena scritto l’impresa più grande, battere gli Springboks.

L’impresa più grande, più stordente in svolgimento e esito, per il giocatore più grande, calligrafico, capace, con modalità improvvise e rapsodiche, di trasformarsi da titano in geniale improvvisatore entrando nel campo d’azione e nel repertorio dei mediani di mischia, delle aperture più creative, dei centri capaci di individuare varchi e percorrerli: Sergio ha inventato la “parissina”, quel passaggio rapido dietro la schiena che è invito all’avanzamento, ha affinato il piede (ne sa qualcosa il Benetton nella semifinale schiodata proprio da un suo calcetto per chi dovette solo depositare l’ovale oltre la linea), ha persino tentato di praticare l’arte esclusiva del drop, e se quel suo tentativo fosse andato a segno lo Stade de France sarebbe ammutolito prima di decidersi ad applaudire un campione che anche i francesi sentono come loro, ricordandolo quando al tempo dello Stade Francais entrava in campo vestendo quelle fantasiose “mìses” che ricordavano i rivestimenti floreali di poltrone del secondo Impero.

Sergio, nato in un luogo che significa argento (la Plata), ha finito per indorare questo suo lungo tempo, iniziato quando, poco più che adolescente, andò in campo contro gli All Blacks: era l’8 giugno 2002, ad Hamilton. John Kirwan aveva capito che c’era della stoffa. Ed era stoffa del miglior filato, come certe balle di lana selezionata che Loro Piana acquistava agli antipodi estremi.

Treviso, Parigi sponda Stade, Tolone con l’ingresso nella maturità piena, l’avventura azzurra scandita da 142 caps, 94 da capitano (69 nel 6 Nazioni), 16 mete (alcune meritano un viaggio in Youtube), la nomination tra chi era in lizza per metter le mani sull’Oscar del rugby, la determinazione scritta sempre sul suo volto, la fierezza delle radici italiane e abruzzesi, il sorriso che poteva essere aperto, sottile, ironico, allusivo. Come dopo il secondo successo a Murrayfield: non ci credeva nessuno, lui e i suoi più fedeli scudieri, sì.

L’ultimo valzer a Tolone non è un malinconico blues. Sergio è una montagna e può non essere un caso che l’addio arrivi a settant’anni dall’ascesa all’Everest di Edmund Hillary e di Tenzing Norgay. E come una montagna rimarrà, nella luce assoluta delle alte quote.