Il Sei Nazioni Under 20 rappresenta ogni anno un’occasione importantissima per i giovani, che possono misurarsi con il livello internazionale e col meglio del rugby giovanile europeo. Il biennio dell’Under 20 rappresenta il primo trampolino di lancio per tanti ragazzi, e va gestito cercando il massimo equilibrio tra formazione e risultati, come spiega l’attuale allenatore delle Zebre ed ex capo allenatore dell’Italia Under 20 Fabio Roselli, che ha seguito gli Azzurrini dal 2018 al 2020 e precedentemente aveva fatto parte dello staff di Alessandro Troncon: “L’esperienza dell’Under 20 è stata fondamentale per il mio percorso di crescita, sia come persona che come tecnico. Si lavora in un momento importantissimo per la crescita dei ragazzi, e anche l’attività internazionale è di altissimo livello. Quando si arriva al Sei Nazioni e soprattutto al Mondiale Under 20 i ragazzi sperimentano per la prima volta un’intensità molto vicina a quella che poi troveranno quando faranno il ‘salto’ tra i grandi. È stato un periodo ricco di emozioni, di risultati, anche di fallimenti che però hanno rappresentato una crescita”.
Quanto è importante questo passaggio per dei ragazzi che a 19-20 anni si affacciano alle prime vere partite internazionali?
“È vitale, sono i primi momenti in cui affrontano delle partite che possono dare loro dei riferimenti rispetto a ciò che troveranno in futuro. Chiaramente il passaggio al livello seniores è comunque grande, ma sono delle occasioni per capire come sarà poi il rugby da professionisti. Parlavo prima del Mondiale Under 20: al di là del livello alto delle squadre, anche il modo in cui è strutturato aiuta tanto a crescere, perché un punto in più o in meno può fare la differenza tra giocarti le semifinali per il titolo e quelle per non retrocedere”.
Chiaramente i ragazzi fanno già un percorso di crescita “proprio” durante la stagione. Su cosa deve lavorare un c.t. dell’Italia Under 20 quando poi arrivano in raduno?
“Prima di tutto è importante creare una forte identità e un modello di gioco chiaro, cucito su misura sul gruppo di giocatori a disposizione, e un’etica del lavoro ben definita. Dopodiché la sfida – molto difficile – è quella di ottenere dei risultati e allo stesso tempo lavorare in un momento fondamentale della crescita dei ragazzi. Bisogna trovare un equilibrio, ed è una sfida molto importante perché si rischia facilmente di sbilanciarsi troppo o sulla formazione o sul risultato”.
Quali sono state le soddisfazioni più grandi che ha ottenuto in quegli anni?
“La soddisfazione più grande è stata quella di aver dato una possibilità a tanti giocatori, anche quelli che magari non facevano parte del percorso formativo federale e che hanno comunque potuto esprimersi e dare il loro contributo. Abbiamo fatto il massimo affinché non si ‘perdesse’ nessun giocatore. Ricordo che nel 2018 riuscimmo a creare un gruppo allargato di oltre 50 ragazzi, un grande successo. Vedere ogni giocatore esprimersi al massimo delle sue possibilità è la soddisfazione più bella, e vedere adesso questi ragazzi in Nazionale o nelle franchigie è bellissimo per me. A livello di risultati, sicuramente togliersi di dosso il cucchiaio di legno e togliere l’Italia dall’ultimo posto nel Sei Nazioni è stata una grande cosa. Abbiamo fatto bene anche ai Mondiali: nel 2018 arrivammo a un solo punto dalle semifinali per il titolo, chiudemmo il girone al secondo posto facendo 10 punti battendo Scozia e Argentina col bonus, e non riuscimmo ad essere la migliore seconda perché nell’altro girone il Sudafrica ne fece 11. È il discorso che facevo prima, questo torneo insegna ai ragazzi che ogni punto può fare la differenza”.
Da Lamaro a Capuozzo, passando per Niccolò Cannone e Paolo Garbisi e altri, ha allenato tanti talenti. Aveva già capito che avevano qualcosa di diverso dagli altri?
“Sì, si capisce subito quando un ragazzo eccelle in qualcosa, che sia la determinazione, l’abilità tecnica, la qualità fisica, l’interpretazione del gioco. Pensiamo a Federico Mori, che già in Under 20 aveva dimostrato grandi doti a livello fisico, o all’intelligenza rugbistica che aveva già uno come Paolo Garbisi. Poi è chiaro, non c’è sempre la garanzia che poi ‘arriveranno’, perché il passaggio al livello seniores è sempre difficile, però sicuramente ci sono grandi speranze quando si vedono giocatori così”.
Quello di Capuozzo, poi, fu un caso particolare. Arrivò quasi per caso…
“Sì, arrivò davvero per caso. Se non avessimo giocato quell’amichevole con gli espoirs di Grenoble forse non l’avremmo conosciuto. Fu lui a presentarsi dopo la partita, ma fu subito un ‘matrimonio’ felice, perché aveva mostrato un grande desiderio di giocare per l’Italia, e per un ragazzo che cresce all’estero non è così scontato. E poi ha dimostrato subito di avere una capacità di interpretazione del gioco superiore. Ricordo che non abbiamo potuto utilizzarlo nel Sei Nazioni 2019, ma lo abbiamo fortemente voluto nel gruppo del Mondiale, e di questo ringrazio anche Maurizio Zaffiri per la relazione avuta con Grenoble per prepararlo al meglio”.
Inizialmente giocava mediano di mischia, com’è avvenuto il cambio di ruolo?
“In quell’amichevole con Grenoble contro di noi fece quasi tutta la partita da mediano di mischia, poi nel finale si spostò ad estremo. Quell’anno noi avevamo bisogno di più profondità nel ruolo di estremo, e quando gliene parlai lui era contentissimo, gli bastava giocare, andava bene qualsiasi ruolo. Più volte in quel Mondiale giocammo con un doppio estremo, con lui insieme a Trulla, un altro ragazzo che sta facendo un bel percorso. Allo stesso modo anche Grenoble è stato molto disponibile nel collaborare alla sua crescita, facendolo giocare più spesso ad estremo. È venuto tutto molto facile, sia per la sua disponibilità sia perché tutti i compagni lo hanno subito accolto benissimo, facendolo sentire a casa”.
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