Dal judo alla spina delle birre passando per la Nazionale. L’incredibile storia di Marta Ferrari. «Il futuro è un’incognita perché in questi tre anni mi si è sconvolta la vita»
Marta Ferrari è entusiasmo allo stato puro. Ogni sua parola esprime felicità e ringraziamento. Verso tutto e verso la vita in generale. Nata nel 1991 ha davanti tutta una carriera in ovale anche se ha cominciato tardi a misurarsi con l’ovale. «Era venuta una ragazza mentre facevo judo per imparare questa disciplina. Io poi mi sono infortunata e per non stare ferma ho iniziato a giocare al Cus Verona e poi da settembre ho iniziato a Riviera del Brenta. Sono stata in nazionale di judo dal 2006 al 2009 e questo mi avvantaggiato in alcune cose. Io ero abituata fare le cose che mi dicevano mentre nel rugby devi interpretare il gioco. Invece mi ha avvantaggiato perché ero abituata alla mole di lavoro e poi sul contatto».
In nazionale la vedrebbero bene tallonatore e a lei non dispiacerebbe affatto anche se al momento se la cava benissimo in altri lidi. «Ho sempre giocato primo centro. Mi piace il mio ruolo, da esordiente ho fatto fatica a imparare e sto ancora facendo fatica. Hai possibilità di decidere il gioco e hai spesso la palla in mano, poi io sono un poi un centro ignorante. Non mi faccio problemi».
E come potrebbe farsene? Le basta allargare quel solare sorriso da vichinga per convincerti. «Con il rugby ho trovato uno sport che mi piace. Non mi è mai successo di aspettare il giorno dell’allenamento. A Riviera del Brenta mi alleno tre volte alla settimana sul campo e due volte in palestra. Passare dal judo al rugby lo rifarei tutta la vita e molto prima perché si vede la differenza tra chi ha cominciato molto presto e chi, come me, ha cominciato presto. Ci vuole pazienza».
Intanto di pazienza ne ha avuta meno Di Giandomenico che l’ha convocata dopo lo scudetto vinto con il suo Riviera del Brenta. «Mi aspettavo questa convocazione perché già mi era stata ventilata. Poi, però, bisogna vederla scritta. All’inizio mi sembrava un po’ precoce come chiamata anche se mi faceva piacere». Felicità, legittima, per l’azzurro.
E il tricolore?
«Avevamo iniziato il campionato malissimo. La squadra era nuova e non ci fidavamo una dell’altra. Poi abbiamo fatto un grosso lavoro e siamo cresciute moltissimo. Tipo quei film americani in cui si parte sfavoriti e poi arriva il trionfo. Un flash della finale? L’ultimo pallone, quando la Schiavon ha calciato fuori il pallone e non sapevo se piangere o ridere».
Di sicuro c’è stato da ridere quando alla prima gara dell’Europeo si sono palesati una quindicina di giocatori del Valpolicella per fare il tifo per lei che è veronese puro sangue. «Studio scienze motorie a Verona, al secondo anno. E poi non ho tempo per altro. Neppure per un fidanzato. Abito al quartiere Chievo, si vive bene. E poi Verona è una città non troppo grande ed è obbiettivamente bella. Quando sono a Verona vado a dormire abbastanza presto, se esco lo faccio a Padova o Venezia con le mie compagne di squadre con cui mi trovo veramente bene. Ho una sorella più piccola, Valeria, in guardia di finanza ed anche lei in nazionale di judo. Mio papà è ferroviere e mia madre infermiera».
E dopo? «Vorrei andare via dall’Italia. Sia per giocare e sia per studiare. Ma il futuro è un’incognita perché in questi tre anni mi si è sconvolta la vita. Io mi vedevo alla club house a spillare le birre e invece sono qui in Nazionale».
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