Nel giorno dedicato al Coming Out, il mondo dello sport e del rugby in particolare rinnova il suo impegno per l’inclusione, il rispetto e la libertà di essere sé stessi. Il rugby, con i suoi valori di lealtà, sostegno e solidarietà, si conferma terreno adeguato per costruire comunità accoglienti e autentiche, dove ogni persona possa sentirsi parte del gruppo.
Per celebrare l’11 ottobre abbiamo raccolto la testimonianza di un arbitro, Emanuele Tomò, che ha scelto di condividere il proprio percorso personale.
Un racconto di libertà, ma anche di appartenenza, che ricorda a tutti noi quanto il gioco di squadra — dentro e fuori dal campo — sia fatto di rispetto, fiducia e sostegno reciproco.
Cosa hai provato il giorno in cui hai fatto coming out?
“Nell’estate che è appena trascorsa sentivo crescere dentro di me un’urgenza: essere finalmente in pace con me stesso. Avevo bisogno di smettere di recitare, di vivere senza maschere e senza finzioni. Il 28 settembre 2014 – una di quelle date che restano scolpite – ho deciso di fare il salto nel vuoto e dire la verità. Ero pronto ad affrontare anche il peggio, ma è successo l’esatto contrario: ho trovato accoglienza, calore, leggerezza.
L’immagine dell’“uscire dall’armadio” è perfetta: quando apri quella porta, la luce ti investe e scopri un mondo pieno di colori, di sensazioni, di libertà. Quel giorno ho respirato a pieni polmoni, ho sentito il peso cadere e ho ritrovato la voglia di sorridere, davvero”.
Cosa è cambiato, nel tuo rapporto con il rugby, dopo il coming out?
“Paradossalmente, è cresciuto l’amore per questo sport. Il primo coming out l’ho fatto con un collega arbitro di cui mi fidavo profondamente — e non mi sbagliavo. Da lì in poi, ogni abbraccio, ogni pacca sulla spalla, ogni sorriso sincero mi ha ricordato quanto il rugby sappia unire.
Il rugby è un linguaggio universale di rispetto, lealtà e sostegno reciproco: in campo e fuori dal campo. Dopo il coming out, tutto questo è diventato ancora più vero, più tangibile, più mio”.
Il rugby ti ha aiutato nel tuo percorso di coming out? In che modo?Sì, profondamente. Il rugby mi ha insegnato a fidarmi, a credere nel gruppo, a contare sugli altri senza paura di mostrarmi per ciò che sono. È stato un rifugio e una scuola di coraggio.
Quelle che prima erano semplici conoscenze, dopo il coming out sono diventate amicizie solide, autentiche, vere. Il rugby non mi ha solo insegnato a restare in piedi dopo un placcaggio — mi ha insegnato a rialzarmi anche nella vita, a testa alta.
Cosa ti ha insegnato il rugby sull’essere sé stessi?Che le maschere, in campo come nella vita, non durano a lungo. La verità di chi sei viene sempre fuori — e va bene così.
Nel rugby impari che la prima persona su cui puoi contare sei tu, con le tue forze, le tue paure e la tua verità. Una maschera ti fa sopravvivere, ma solo l’autenticità ti fa vivere davvero. E quando le tue forze non bastano, scopri che intorno a te ci sono mani pronte a sostenerti. In fondo, il “sostegno” è la parola più bella che il rugby potesse inventare.
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