Dieci anni fa il Galles camminò sulle rovine dell’Italia: quel 20-61 coincise con un pomeriggio di azzurro-tenebra, capace di vibrare un colpo di cancellino sulle due vittorie al Flaminio quando, prima puntata, i rossi non si capacitarono di aver ceduto agli italiani e, seconda puntata, alzarono mugugni contro l’arbitro, l’inglese Chris White, che si affrettò a fischiare la fine dopo la punizione calciata in touche da James Hook: i Dragoni sognavano un drive per violare la linea e metter le mani sul match. Quella fine delle ostilità servì a rinfocolare i vecchi astii tra chi abita al di qua e al di là del Severn.
Usando la memoria e il supporto delle cifre, i flash back dicono che i gallesi hanno avuto la meglio negli ultimi otto faccia a faccia, due al Flaminio e sei all’Olimpico. L’ultima volta due anni fa, con un margine meno pesante, in fondo a una partita interpretata con modalità tattiche semplici e conservative, il modo per scrollarsi di dosso il raid improvviso, dodici mesi prima, offerto con il frullo di un’allodola, da Ange Capuozzo: prima vittoria italiana a Cardiff nello stadio eretto al centro della città. Le mani decisive furono quelle di Edoardo Padovani che recapitò il dono ricevuto da Angelino.
Quella fuga degna di un Mercurio, l’imprevedibile dio dalle ali ai piedi, segna la prima crepa, che si è progressivamente allargata, nel gran edificio, vecchio 145 anni, del rugby di Cymru, il Principato che ha fatto del gioco simbolo e orgoglio.
E i tempi sono diventati sempre più grami, sempre più impervi e non è servito il ritorno sul ponte di comando di Warren Gatland, condottiero del Principato in giorni felici e dei Lions.
Un anno fa, ancora a Cardiff, l’a-solo elegante di Lorenzo Pani – il voto l’ha eletta, a ragione, la meta più bella del Torneo, così come il suffragio ha spedito Tommaso Menoncello all’Oscar del miglior giocatore – in una partita dal punteggio falso: quel 21-24 non racconta la vera trama di un confronto con le briglie sempre saldamente in mano agli azzurri.
Per i gallesi, l’anno orribile, scandito da una sconfitta dopo l’altra, da un senso di impotenza, di vocazioni sempre più scarse, di decadenza, di scivolamento progressivo nel ranking proseguito in un autunno avaro e spietato. Per l’Italia di Gonzalo Quesada, progressi, iniezioni di fiducia, qualche balbettio novembrino.
Ora, ancora un testa a testa. I gallesi sognano una nona sinfonia romana; gli azzurri voglio spezzare una serie troppo lunga di rese interne contro i rossi. La catena dell’infelicità che pareva eterna – 36 partite – saltò proprio contro chi porta addosso le tre piume e parla una dolce e antica lingua.
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