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CONOSCIAMO AWA COULIBALY, PILONE DELL’ITALIA IN FORZA AL RUGBY MONZA 1949

Italia Femminile |

AWA_Awa Coulibaly ha voce baritonale e viso da bambina. Gioca pilone e pare che il peso del mondo possa tranquillamente finire sulle sue spalle. Per lei non ci sarebbe problema. Allarga il sorriso e torna seria con una facilità disarmante. Pensieri e parole di una ragazza di 25 anni che ha molto da dire. Non solo sul rugby.

«Ho cominciato a giocare mentre frequentavo il liceo scientifico Monti di Chieri. Si faceva il torneo scolastico e si doveva fare attività, le altre discipline non mi ispiravano. Ho fatto calcio, kick boxing e anche nuoto. In tutti gli altri sport non trovavo la complicità che ho trovato nel rugby e quello mi ha conquistato».

Sempre lì davanti. «Ho sempre giocato pilone. O tallonatore, comunque in prima linea. Adesso il ruolo è cambiato, prima erano solo legnate e poteva sembrare monotono. Oggi è più dinamico e ti chiedono di fare da sostegno ai tre quarti, è più dinamico perché il rugby lo richiede se vuoi battere le avversarie più forti». Parlare con Awa è un piacere perché ha modi di fare schietti e una certa esperienza di gioco.

E, allora, come sta il rugby femminile in Italia? «Da un lato abbiamo la fortuna di avere tanto supporto sia dalla federazione che dai club. Dall’altro ci vuole pazienza perché la nostra è una società calciocentrica. Bisogna coinvolgere di più la gente, il calcio è facile da capire mentre il rugby è più complesso. Io ho girato tante squadre perché i miei genitori mi hanno sempre sostenuto: Chieri, poi Pavia e Biella. Un’esperienza estiva facendo la preparazione con la squadra femminile del Grenoble: mi piace cambiare perché impari sempre cose nuove e ti migliori. Ho giocato anche a Torino e adesso sono a Monza».

Una globe trotter dell’ovale con i piedi ben piantati in terra. «Mi sto laureando in economia e direzione delle imprese all’università di Torino. E poi lavoro part-time in un’azienda che lavora per la Vodafone, facciamo assistenza clienti o gestioni del credito. Io sono nata in Mali e sono venuta a tre anni in Italia, ho un fratello più grande, Lamin, che fa scienze politiche e gioca a calcio. Mio padre è architetto e mia madre è un’arredatrice d’interni, li ho tenuti sempre lontani dal rugby per non farli preoccupare ma loro vedono quanto sono coinvolta e mi hanno sempre appoggiata».

Il suo è uno splendido esempio d’integrazione e uno spot per quanto possa essere bella e giusta una società multietnica per l’Italia. «Vestire la maglia della nazionale è un onore e devi rispettarla nei confronti di quelle che non hanno la fortuna di indossarla. Devi dare il massimo per tutti quelli che fanno sacrifici per far sì che il rugby femminile esista. Obbiettivamente non mi aspettavo di essere chiamata anche se quando avevo vent’anni ci speravo, a venticinque anni ci avevo quasi rinunciato. Hanno dato la possibilità di indossare la maglia me che sono nata all’estero, anche per questo lo stimolo è ancora maggiore, cantare l’inno poi è stato impressionante».

Ma in Italia esiste il razzismo? «Da come la vedo io non è un Paese razzista. Poi ci sono casi legati alla paura di quello che non si conosce ma non all’odio». E il futuro? «Non sono mai stata in Mali e mi piacerebbe tornare. Mio padre è venuto in Italia quarant’anni fa e mi dice che il Mali è un paese da vedere. Ma in generale tra dieci anni mi vedo felice. E basta. D’altra parte crearmi un’aspettativa adesso mi annoierebbe, tutto qui».