di Enea Zoli (https://www.gagarin-magazine.it/)
Lo scorso 11 maggio il Faenza Rugby ha giocato un’amichevole «in casa» del Rugby Giallo Dozza, squadra formata dai detenuti della Casa circondariale della Dozza a Bologna. Entrambe le formazioni sono allenate da Edgardo Eddy Venturi (già giocatore della Nazionale italiana negli anni ’90). Una partita dal grande significato sociale e spirito di inclusione e partecipazione.
Lo posso candidamente ammettere. L’idea di giocare una partita di rugby – ancorché amichevole – contro una squadra di detenuti e all’interno di un carcere mi fa cagare addosso. E poi questi giocano sempre in casa loro, chissà cosa nascondono in giro per il campo… Trascorro diversi giorni speculando su luoghi comuni cinematografico-escapologici di basso livello ma alla fine il giorno della gara arriva e quando ci ritroviamo per partire con gli altri compagni del Faenza Rugby siamo tutti piuttosto presi bene.
Tuttavia è sufficiente l’arrivo a Bologna, davanti al penitenziario della Dozza, per far cambiare il clima. Diventiamo stranamente silenziosi: tutti quei cancelli, quei muri, quei controlli prima di entrare ce la mettono un po’ d’ansia. Sono un promemoria omnidirezionale. Non stiamo andando a giocare in uno dei soliti campi.
Oltre il cancello perimetrale l’unica cosa che vediamo è cemento. Cemento in tutte le direzioni, se si eccettua una serie di fessure. Sono finestre, sbarrate da strati di grate. Dentro qualcuna si intravedono cose appese ad asciugare e ogni tanto qualche sguardo, di cemento pure quelli.
In mezzo a tutto questo, diversi cancelli attraversati più tardi, eccolo: il campo da rugby. Piazzato così, quasi per caso. Come un universo parallelo e verdissimo che nulla ha a che vedere col bunker tutt’intorno. Trovarsi qui, seguiti da tutti quegli occhi che hanno visto chissà cosa, è senza dubbio un’esperienza, non riesco ancora a capire se mi stia facendo bene o male.
Cerco di mettere via i pensieri insieme ai vestiti, mentre ci cambiamo per indossare le divise. Siamo pronti a scendere in campo, in quella parentesi di rettangolare normalità in cui è il filo spinato a dividerci da ciò che è out. Iniziamo il riscaldamento e l’unico pubblico che ci è concesso sono le guardie – che girano armate sui muri di cinta – e i compagni d’avventura dei nostri rivali, che tifano dalle finestre delle loro celle… Posso raccontare ciò che vedo ma è impossibile trovare le parole per quel che sento.
Dopo una lunga attesa, quasi a coglierci impreparati, arrivano i nostri avversari, il Rugby Giallo Dozza. Un manipolo di uomini enormi, sorridenti, ma con facce che in alcuni casi tradiscono le vicissitudini trascorse. Uno su tutti, il numero 8, è un colosso pieno di cicatrici: corre voce (ma bassa, appena un bisbiglio) che sia un ergastolano condannato per aver ucciso un uomo a sprangate. Tra di loro parlano almeno quattro lingue diverse, ma nonostante ciò sembrano capirsi. Solo il capitano usa l’italiano e tutti lo seguono con convinzione.
Via col kickoff: il match è subito serrato. I padroni di casa sono agguerriti, sento la loro voglia di vincere sulle clavicole, ad ogni mischia, sulle costole ad ogni bloccaggio. Capisco che li abbiamo sottovalutati e abbiamo fatto male: hanno un calciatore davvero bravo che piazza l’ovale tra i pali da ogni parte del campo… e tutte le volte che il pallone calciato finisce al di là del muro quel gran coglione di Piero si mette ad urlare La palla è libera!...
Ce la mettiamo tutta ma il nostro rugby oggi non è buono. L’unico sussulto di orgoglio arriva a sei minuti dalla fine, quando, dal fondo della panchina, decidiamo di riesumare il vecchio Lanz. Entra in campo come un leone mentre stiamo subendo di brutto le incursioni di questa marea gialla: dopo due minuti, in piena corsa, il nostro bulldozer riceve palla e – come se fosse l’ultima cosa che gli resta da fare a questo mondo – avanza con la bava alla bocca per diversi metri mentre un nugolo di avversi gli si aggrappa ovunque. Vedendo il vecchio leone immolarsi a quel modo abbiamo tutti una reazione di orgoglio e carichiamo insieme a testa bassa continuando ad avanzare. Servono altri tre minuti e mezzo di completa sofferenza ma ce la facciamo: meta!
Mancano appena due giri di lancette, ma, dopo averne giocati quattro così intensamente, Lanz lascia il gioco col volto indurito e l’alone leggendario di un reduce della Normandia. Si avvicina alla panchina, si piega in avanti quel poco che ancora la colonna gli consente e vomita senza vergogna per lo sforzo.
Arriva il fischio finale, il Giallo Dozza si impone 33 a 25.
A fine partita i ragazzi ci chiedono di fermarci per fare qualche foto. Siamo felici. Ma poco dopo, mentre rientriamo lungo l’A14, mi domando se per loro è stato lo stesso, se rivivranno i ricordi di questa giornata con un sorriso anche lungo un percorso che senza dubbio ti cambia la vita, quasi mai in meglio.
Prima però c’è ancora tempo, il terzo, per stare insieme. Dopo la pessima prestazione sul campo, il terzo tempo è la fase del match in cui, indiscutibilmente, abbiamo dato il meglio di noi. Beviamo e mangiamo insieme e in allegria. Ma la spensieratezza viene placcata sempre troppo presto. Chiacchiero con alcuni di loro, la palpo la voglia che hanno di una conversazione normale. Ma poi finiscono per parlare di come sono finiti in quel posto.
Uno di loro è davvero giovanissimo. Scopro che ha solo ventun anni ma è destinato a trascorrere rinchiuso qui metà della sua vita. Cielo e cemento. Sto per essere sopraffatto dallo sconforto quando mi avvicina un ragazzo dell’est Europa che, in un italiano tutto suo, mi rincuora: «Siete forti, ma dovreste essere un po’ più cattivi» e sentirlo dire da lui alla fine mi fa sorridere.
Salutiamo tutti e torniamo a casa. Grati alla nostra società e a Eddy, il nostro allenatore (è lui che porta avanti il progetto rugby all’interno della Casa circondariale), per l’opportunità che ci ha consentito di riconoscere l’umanità anche in un luogo che, da fuori i cancelli, di umano sembra avere davvero poco. Forza Rugby Giallo Dozza!
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