Sono passati 27 anni da quel pomeriggio di Grenoble che cambiò per sempre il rugby italiano: il successo dell’Italia contro la Francia nella finale della Coppa FIRA sancì – di fatto – l’ingresso degli Azzurri tra i grandi della palla ovale: “A pensarci adesso, è quasi strano che una partita di quasi 30 anni fa venga ricordata ancora così tanto, per noi fu una grandissima gioia, un tatuaggio indelebile” racconta Alessandro Troncon, mediano di mischia di quell’Italia e attualmente allenatore dell’attacco del Benetton.
Perché secondo lei, dopo tutto questo tempo, si parla ancora di Grenoble?
“Nell’immaginario collettivo è stato il momento in cui l’Italia ha dimostrato di essere competitiva a livello europeo. Battere quella Francia, che aveva appena fatto il Grande Slam, a casa loro e giocando una grande partita rappresenta un ricordo importante per tutti, me compreso ovviamente. Evidentemente fu qualcosa che impressiono talmente tutti da diventare, nella narrazione successiva, la partita che cambiò il rugby italiano, quindi è giusto che venga ricordata, anche se in realtà il nostro percorso iniziò ancor prima”.
Sì, prima ancora di quella partita l’Italia aveva già ottenuto risultati importanti…
“Era una squadra forte e molto sicura di se stessa. Avevamo vinto 3 volte consecutive contro l’Irlanda, 3 volte contro la Scozia, avevamo rischiato di vincere a Twickenham. Nel 1994 poi avevamo fatto una grande tournee in Australia, all’epoca i Wallabies erano i campioni del mondo in carica e noi andammo vicinissimi a batterli: purtroppo un giovane mediano che non capiva nulla di rugby giocò un calcio di punizione veloce a 5 metri dalla linea di meta sprecando un’occasione, e quel giocatore ero io (ride, ndr). Eravamo 20-11 per noi e mancavano 15 minuti, avremmo potuto segnare altri 3 punti e invece finì 23-20 per loro. Al di là di questo, i risultati ci davano fiducia ed eravamo competitivi con tutti. Solo con gli All Blacks abbiamo sempre subito a livello mentale, e di conseguenza anche sul piano del gioco, ma con tante altre squadre eravamo estremamente competitivi, se non superiori”.
Quanto contava l’unità di quel gruppo?
“Avevamo un gruppo davvero coeso, che contribuiva ad aumentare la sicurezza nei propri mezzi. Era l’inizio di un professionismo ‘velato’, con George Coste avevamo iniziato a concentrarci solo sul rugby, anche grazie al sostegno della Federazione. Era una squadra con grande qualità morali, fisiche e tecniche”.
Se dovesse ricordare un solo “flash” della partita di Grenoble, quale sceglierebbe?
“Ho in mente la meta di Croci, arrivata dopo un bellissimo contrattacco. Fu una splendida azione di squadra, toccammo il pallone in tanti e con quei punti scavammo un solco importante sulla Francia. E poi chiaramente la fine, la gioia dopo il fischio finale. Per chi ha giocato quella partita è un ricordo indelebile, un tatuaggio che non si può più rimuovere, fortunatamente”.
Per chiudere il cerchio, secondo lei quale eredità lascia questa partita anche a chi inizia adesso o inizierà in futuro a giocare a rugby?
“Insegnamenti ce ne possono essere tanti. Dobbiamo partire dal presupposto che quella partita non è stata vinta solo in quel giorno, ma nei 2-3 anni precedenti nei quali è stata costruita quella squadra e quei giocatori. Eravamo estremamente avanti per i tempi per quanto riguardi allenamenti, sia a livello tecnico che fisico. Avevamo allenatori di altissimo livello come Isaia Di Cesare, purtroppo scomparso. Eravamo seguiti davvero in quasi tutti gli aspetti, avevamo lo psicologo dello sport, una cosa molto avanti per i tempi. Quello era un gruppo vero che voleva provare a cambiare qualcosa, e ci è riuscito”.
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