Questi celti in verde ce li ritroviamo tra i piedi di frequente, perlomeno una volta l’anno, e a loro sono legati ricordi grami di aride stagioni ma anche momenti da scaldare nel tepore della memoria: è l’unico paese ovalmente evoluto a cui, ai gloriosi tempi di Georges Coste, rifilammo tre sonate per arpa e nitroglicerina, avrebbe detto quel buonanima di Hugo Pratt, lasciandoli più che umiliati, stupiti.
Due vennero nell’arco giusto di un anno, tra gennaio e dicembre, in una Dublino molto fredda (e in un Lansdowne Road dalle strutture sempre più traballanti) e in una Bologna prenatalizia e inondata di sole. Il 1997 è una delle annate pregiate nella cantina italiana, come un Barolo del ’64. Tra un’Irlanda e l’altra, c’era stata Grenoble, la gloriosa giornata, il conto saldato con la Mala Pasqua del ’63.
A Dublino (estremo irlandese Conor O’Shea che in seguito avrebbe ancora incrociato il cammino di Ovalia) due mete di Paolino Vaccari (protagonista anche del primo successo, quello trevigiano datato 1995), una di Massimo Cuttitta, una di Diego Dominguez dal piede implacabile. A Bologna, mete di Pilat, Stoica e naturalmente di Diego che riempì il pomeriggio di parabole a segno e destinate a lasciare il segno. Se le vogliamo considerare un’andata e un ritorno, 37 punti alla prima, 37 alla seconda. L’accesso alla mensa dei grandi era cosa fatta dopo la rete di rapporti tessuta da Giancarlo Dondi, nel Risorgimento rugbystico italiano un conte di Cavour.
In realtà i celti se li ritrovarono in casa proprio i romani, 2300 anni fa, quando Brenno invase la città esigendo un forte tributo in oro, gettando la spada sulla bilancia e minacciando: “Vae victis, guai ai vinti”. Brenno è un nome dall’aria famigliare: la latinizzazione di Brian, di Bryn?
La prima volta dell’Irlanda all’Olimpico è arrivata proprio come capiterà tra poco, nei giorni musicali e birrosi di San Patrizio e per l’Italia quel 16 marzo 2013 si è trasformato in una data storica. Per lunghe e aspre stagioni rappresentava il ricordo, sempre più sbiadito, dell’ultima vittoria. I piedi giusti furono quelli di Luciano Orquera, cordobes come Diego, e di Gonzalo Garcia da Mendoza, la meta, l’unica, di Giamba Venditti che ne avrebbe segnata un’altra, memorabile, al Sudafrica. Quel giorno, a Firenze, qualcuno domandò a Sergio Parisse se quella era la più grande vittoria del rugby azzurro. La risposta fu un capolavoro di fierezza e di brevità: “Sì”.
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